Cultura del bere: quando la cura del cliente non è una moda passeggera

L’etimo del termine cliente deriva dal latino cliens. Pare che sia collegato al participio presente colens, dal verbo colere, che vuol dire rispettare, ossequiare. Partiamo da qui, dall’origine della parola cliente, per cominciare una riflessione più generale su una tendenza, sempre più in voga nei bar, di curare i clienti in maniera quasi maniacale. Un bar d'altri tempi

C’era una volta il “Negroni“: gin, vermouth e Campari. Semplice e rapido. Quale gin o quale vermouth? Nessuno si sarebbe sognato di specificare un’ etichetta. Semmai la richiesta era sempre e solo una: “Bello forte, come sai tu. Con più gin e poco ghiaccio”. La storia è nota, inutile sprecar tempo a discuterne. Veniamo all’oggi, invece, perché fortunatamente quelle insane richieste sembrano un lontano ricordo. Tutt’al più sono state relegate alle discoteche, ambito, come dire, extraterritoriale. Restiamo sul nostro territorio, il caro cocktail bar. La tendenza che si registra, dicevamo, ormai da alcuni anni al suo interno è proprio quella di prendersi la massima cura del cliente. Il che è assolutamente sacrosanto. Provate a chiedere un “Negroni” oggi e non solo vi chiederanno le preferenze di gin e vermouth, ma in molti casi anche del bitter! Siamo in una fase ricca di etichette di qualità. Il ventaglio di scelte si è ampliato e pertanto è corretto che un barman guidi il cliente nella decisione finale. Come se non bastasse, a ramificare il percorso che porterà alla scelta del cocktail ideale, spesso ci sono prodotti ‘home made’, fatti direttamente dalle mani del barista. La ‘tradizione’ è stata finalmente  ripresa in mano. Le guide sui cocktail del passato, sono state riscoperte, rivisitate e riproposte per il gusto moderno. Si tratta di un grande lavoro compiuto da esperti mixologist che hanno passato anni in studi e ricerche. Spesso senza l’aiuto di qualcuno. A loro va un grande plauso. Il ‘movimento’ che ha avuto seguito dalle loro mosse oggi è cresciuto in maniera esponenziale. Ha preso piede in ogni locale. A noi è capitato questa estate di bere un ottimo “Daiquiri” rivisitato con cedro e camomilla in un bar di uno stabilimento balneare. Parliamo di un baretto in legno sulla spiaggia, in cui solo pochi anni addietro avremmo preso una birra gelata per evitare ‘traumi’ al palato. Con questo esempio si vuol significare come l’attuale cultura del bere si è sostituita alla cultura dello sballo. La notizia fa indubbiamente piacere. Ora, però, la domanda nasce spontanea: questa cultura del bere quanto è in grado di innestarsi sul serio come sana abitudine, piuttosto che come moda passeggera? In altri termini: quanto può davvero far del bene al settore del bartending nostrano? Non si tratta di una domanda buttata lì per caso. Merita una particolare attenzione da parte di tutti gli operatori del settore. Specie di quelli più ‘titolati’, per intenderci i ‘guru’ Chaplin barmandella miscelazione. Osserviamoli un attimo: bombetta, coppola, barba da minatore o baffi, straccali, reggimanica. Il repertorio è fondamentalmente questo. Si potrebbe dire che essendo studiosi del passato, se ne sono a tal punto innamorati che lo vogliono rappresentare anche nel vestiario. E va benissimo, ci sta. Sono un po’ hipster. Vivere nel retrò come fanno molti di loro è, allora, anche una moda, uno stile di nicchia. Ciò non significa che debba per forza piacere a tutti, quindi. Quello che vorremo dire è che esiste questo fattore estetico che può piacere, sicuramente, ma non è detto che sia in linea con la personalità di ognuno. Prima di arrivare a ‘trasformarsi’ in baristi dei primi del ‘900, occorre ben altro. Stiamo parlando, in fondo, di un mestiere in cui forma e sostanza dovrebbero viaggiare in parallelo, per stare ad alti livelli.

Abbandoniamo però la questione dell’aspetto esteriore, che può far colore, al limite, ma non serve a dare sostanza a un buon cocktail e soffermiamoci, invece, sulla sostanza. Perché è proprio in ciò che abbiamo notato le pecche maggiori. A un cliente che ordina un “Gin & Tonic”, si tende a chiedere non solo quale gin preferisce, ma persino quale acqua tonica. E sì, perché in questo mercato intriso di ‘cultura del bere bene’, ogni nuova o vecchia etichetta ricerca la sua nicchia di pubblico. E questo è corretto, anche dal punto di vista del marketing. Tuttavia – e finalmente arriviamo alla vera questione – la domanda che il barman pone è totalmente errata. Perché spiazza il cliente, ignaro delle differenze dei prodotti. Stiamo ovviamente parlando sulla base di un esempio tipo, in cui il cliente è uno sconosciuto avventore al bancone. Scene come questa capitano spesso. Ora, va benissimo ampliare la scelta delle bottiglie, ma farla seguire da piccole note a commento, sarebbe una buona pratica. Questa è la vera cultura del bere. Manca un po’ di comunicazione: in quel tumbler alto, in equilibrio sul banco, si dovrebbero incontrare le Bartender al lavoroconoscenze del barman e le aspettative del cliente. A che pro tenere su i calzoni con le bretelle, se poi quel modo di apparire si limita a una apparente cura del cliente? Possiamo miscelare ottimi “Gin & Tonic”, ma far bere bene è anche e soprattutto altro. Dovrebbe far rima con il far star bene. Non è sufficiente essere dei produttori di ottimi drink per questo. E non si scopiazzano i ‘guru’. Meglio concentrarsi su chi c’è davanti al bancone. Curare il cliente non significa ‘vestirlo’ necessariamente degli abiti che si preferiscono.
Forse è bene ricordare che l’etimologia di cliente potrebbe derivare anche da cluo, che vuol dire ascoltare, prestare orecchio.
Quindi, la prossima volta che qualcuno si avvicina al bancone, ‘occhio’. Pardon, ‘orecchio’.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

1 Comment

  • barmanamato@virgilio.it'
    Rispondi Giugno 17, 2018

    kingAmato

    Il ritorno del vintage, senza sorriso
    Oggi siamo nell’era della riscoperta dei cocktail classici, delle attrezzature e di uno stile vintage, dall’abbigliamento alla scelta degli ingredienti come bitter e amari. I barman sono tornati ad essere dei fighi, ma l’eleganza si dimostra con test misurati, lunghe barbe hipster curate, capelli con la brillantina. Nel giro di qualche anno si è cominciato a bere bene, nettamente bene in molti locali. I bar sono un luogo di culto, le bottiglie un altare da venerare, i barman dei sacerdoti.
    “La qualità del bere deve però andare di pari passo con il divertimento, l’intrattenimento, accoglienza, l’ospitalità. La professionalità che si esprime nel bicchiere non è abbastanza, i bar sono pur sempre industria dell’accoglienza. Il flair deve essere parte integrante della mixology, intesa a 360°: educazione, accoglienza, professionalità, know how sul prodotto e nella miscelazione.

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