Emanuele Broccatelli, Londra, l’hosting e i cocktail in bottiglia

Abbiamo incontrato Emanuele Broccatelli, bartender dell R cocktail bar del Majestic di Roma, per farci raccontare la sua nuova idea: i cocktail in bottiglia. La piacevole chiacchierata è stata così l’occasione per scoprire la storia di questo talentuosissimo barman, la sua esperienza londinese e la centralità dell’hosting nella sua filosofia del bar.

Emanuele partiamo dalla fine. La tua ultima idea è quella di portare il bar fuori dal bar con dei cocktail in bottiglia. Come nasce questa idea?

Nasce dall’idea di dare un servizio in più, visto che in Italia all’interno dei ristoranti non c’è sempre il bar incorporato. La crescita della richiesta di cocktail anche nei ristoranti mi ha fatto venire in mente l’idea di offrire questo servizio. Avevo già provato questa soluzione con degli eventi a Stazione di Posta e avevo visto che funzionava. Così ho pensato, perché non provare a farlo in altri ristoranti? In questo modo il locale evita anche la spesa del bar e quella di un barman. Emanuele BroccatelliE poi non è detto che tutti i barman capiscano la differenza fra fare questo lavoro in un ristorante o in un cocktail bar puro; in un ristorante devi seguire sia quella che è la filosofia dello chef che quella del locale in sé. Fatta questa riflessione ho pensato di porzionare i cocktail e, per ogni ristorante che chiedeva questo servizio, di fare una cocktail list mirata. Se, per esempio, il ristorante usava molto le spezie allora i cocktail sarebbero stati preparati utilizzando le spezie e seguendone la stagionalità. Man mano che questa questa idea prende piede il cliente diventa parte integrante di questo “gioco” in quanto i drink non vengono più serviti già finiti, come succede quando chiedi al barman di farti un cocktail, ma viene dato un packaging, che sceglie il ristorante, con le istruzioni d’uso separate. Quindi il cliente apre, ad esempio, un barattolino di marmellata, fatto con l’etichetta “salvafreschezza”, inserisce il ghiaccio, quanto ne vuole, e fa nascere un drink di interazione. Per riportare un po’ il concetto dello street bar anche nel ristorante mi è venuto in mente, oltre che imbottigliare questi drink in singola dose, di fare delle versioni più grandi. Riprendendo il concetto del Punch, che era sinonimo di convivialità, ho pensato a delle anfore da 5 o 10 litri, che permettono così di servire al cliente magari un mezzo litro di drink. Si mette a tavola, tutti si divertono, tutti bevono lo stesso drink e non hai grandi costi di gestione all’inizio pur mantenendo una qualità artigianale di altissimo livello.

Quali drink si prestano meglio a questa tua idea?

Molto dipende da quanto il ristorante cerca di farli girare. I drink in bottiglia si possono fare in due modi: o quelli con cotture varie ed ossidazioni, come lavoro io, che essendo solo alcool più stanno in bottiglia più diventano buoni, oppure lavorando sul fresco, senza utilizzare nessun conservante, e quindi con una durata più limitata. Nel secondo caso, magari per un Tom Collins, un Kir Royal od un French 75, avrai una durata massima di 5 giorni. Questo perché, in questi drink, hai l’alcool e lo zucchero che conservano ma anche l’elemento fresco che tende alla deperibilità. Diciamo che sono drink più adatti ad un evento o ad un party a casa, perché vorrei lavorare anche per il take away. Vuoi fare un party a casa? nessun problema, mi chiami, mi dici quante persone siete e cosa volete fare e io ti faccio i cocktail, te li imbottiglio il giorno stesso e tu devi solo servirli ai tuoi amici in modo perfetto. Così si può riuscire ad arrivare dentro casa di quelle persone già più attente al bere, che vogliono un certo tipo di qualità… non quella che c’era fino a cinque o sei anni fa.

Dov’è partito questo progetto e dove si possono trovare questi drink?

Per ora questo progetto è partito solo qui al Majestic e nei locali in cui ho portato i drink, Zoc, Urbana 47 e presto anche La Santeria. Ho scelto questi locali perché fanno un certo tipo di cucina, diversa dal solito, e sono anche carissimi amici. So che c’è molta sperimentazioni nelle loro cucine ma c’è anche molta più attenzione alla materia prima, al servizio e all’artigianalità. Tutto questo si innesta quindi in un discorso di standard di qualità molto elevato e devo dire che le risposte sono molto positive. Sono andato personalmente nei locali per capire come funziona il prodotto e dove cambiare. Non è detto che anche un drink fatto I cocktail di Emanuele Broccatellibene, magari non spiegato bene, visto che per i cocktail in bottiglia non c’è un barman a presentarli, arrivi bene al cliente. Faccio quindi sempre training in ogni nuovo locale dove porto i miei drink, perché secondo me, senza, non si possono raggiungere buoni obiettivi. Una volta spiegato in un certo modo ho notato che le persone rimangono sempre molto affascinate e divertite.

Hai detto che pensi cocktail list specifiche per ogni locale, come ti rapporti con lo chef e con il menù del ristorante?

Succede sempre lì per lì, al momento. Vado nel locale, cerco di capire l’ambientazione, di parlare con il proprietario, che ha dato l’idea al ristorante, e con gli chef. Anche perché quello è il mio background, vengo da cocktail bar di ristorante e non cocktail bar puri. Mi piace quasi stare più in cucina che al bar per creare. I cocktail sono creati ogni volta ad hoc. In questi tre casi ci siamo trovati molto bene con i drink che avevo immaginato in quanto anche io, come loro, lavoro molto con le spezie. Per esempio da Zoc fanno una cucina fusion e ci siamo ritrovati subito, potendo riproporre i miei drink che faccio qui al Majestic come il “Negroni ossidato” , lo “Smoky Boulevardier” (affumicato con Lapsang Souchong) o il “Rodriguez” con l’Earl Gray ai quali aggiunto delle novità con un “Tom Collins” aromatizzato al timo. Questo menù si integra perfettamente con delle piccole tapas creata dalla chef appositamente, prendendo la tradizione italiana ma facendolo glocal, con l’aggiunta di spezie orientali.

Hai nominato alcuni drink proposti nella tua cocktail list dell’R cocktail bar del Majestic. Qual’è la filosofia di questa carta?

Il menù non è fatto di twist on classic. Mi rifaccio molto al classico perché lo adoro però lavoro su quello che la tradizione italiana. Una tradizione che è scomparsa negli anni ’90 per dare posto a tutto ciò che era americano. Io, ad esempio, vengo da Marino, un paese, e in paese quando uscivo di pomeriggio vedevi le persone più grandi di te che, dopo aver lavorato, si fermavano al bar e chiedevano un Campari con il gin liscio. Io provavo a chiedergli se volevano un cubetto di ghiaccio o una fetta di arancia, per farlo più carino, ma la risposta era “che sei matto, me lo annacqui”. Per me anche questo è tradizione. Quindi ho iniziato a giocare con questa tradizione e con un po’ di provocazione riproponendo vari classici all’italiana, come ad esempio trasformare quel Campari e gin liscio in una ricetta che prevede una riduzione di Campari speziato messa nel mixing glass con il gin, stirrato e servito in coppetta, come un classico Martini cocktail, ma con una crusta di Campari e servito con la cipollina come fosse un Gibson. Questo perché al bar, negli anni ’70, avevi gli arachidi, le patatine e i sottoli. Questa cipollina, per dargli un effettoCampari e gin diverso e un’altra aromatizzazione, è infusa sottovuoto con il Campari, diventando per osmosi tutta rossa. Ecco lì che hai un Gibson leggermente rosato, con un retrogusto amaro-speziato e un finale agrodolce che riprende il bitter del Campari. Lavoro come lavorano gli chef cercando di dare più consistenze diverse all’interno dello stesso drink, altrimenti il cocktail diventa pura e semplice liquido e non hai una bella sensazione strana in bocca. Un altro drink che inserirò nel prossimo menù è il Caffè con panna corretto. Sono partito da un prodotto calabrese, una sorta di caffè frizzante “La brasilena”, e ho voluto riprodurre un classico della domenica a casa, il caffé con la ricotta o con la panna magari corretto. Io l’ho corretto con l’Appleton Rum e sopra, al posto della semplice panna, ho ripreso un altro elemento tipico, i biscotti con il finocchietto e l’anice stellato. Così ho bollito la panna con delle spezie per riprendere proprio quei sapori, ho aggiunto un po’ di zucchero muscovado, che da un leggero sentore di liquirizia, e alla fine nel bicchiere hai una sorta di “White Russian” all’italiana.
Tradizione, domeniche in famiglia, pomeriggi al bar, il tuo è un lavoro sui ricordi. Come lavori per riprodurre in un bicchiere queste sensazioni?

Mi piace creare i sapori. Per fare latte e biscotti avrei potuto prendere i biscotti al burro, metterli in infusione, fare un fat wash e tirare fuori un distillato che sapeva di biscotti, aggiungere il latte, farlo blazer… ma mi annoio. L’ho già fatto, è semplice, non mi da più emozione. Quello che cerco di fare e ricrearli partendo da cose che non c’entrano niente con l’idea che ho in testa. E’ un concetto simile a quello di due miei amici grandi chef, Marco Martini, che ha appena preso la stella Michelin, Luciano Molosiglio di Pipero al Rex. Anche grazie a loro sono riuscito un po’ a capire il metodo di ragionamento di uno chef, ovvero come da un ingrediente che non c’entra niente riesci poi a riprodurre il concetto che hai in testa. Il mio bar funziona come una cucina. I ragazzi non vengono qui a tagliare la frutta o fare le preparazioni nel pomeriggio. Una volta a settimana facciamo tutti i preparati, perché sono preparati che vanno fatti in cucina, cotti, sistemati, messi sotto bassa temperatura, abbattuti. Dietro al banco così hai dei preparati, delle cotture, delle cose e “impiatto” il drink. Deve essere tutto funzionale alla velocità del drink perché quello che ho visto era che, con un metodo tradizionale, per fare lo “Smoky Boulevardier” ci volevano dodici minuti. Se stai al bancone e hai tanto tempo i clienti si divertono, c’è la spettacolarità, ma quando hai il bar pieno e devi mantenere la stessa qualità devi andare più veloce. Il cliente deve avere il miglior servizio nel minor tempo possibile. Per questo ho pensato ad altre soluzioni, come il sottovuoto, la cottura a bassa temperatura e l’imbottigliamento.

Attualmente lavori, come detto, all’interno dell’Hotel Majestic. Com’è la tua clientela? Che rapporto hai con essa? R cocktail bar at Majestic

Il rapporto che si crea esce fuori dal bar. Si ritorna al vecchio concetto che porto avanti da tempo, insieme a Massimo D’Addezio e Patrick Pistolesi, che è quello dell’hosting. Nell’ultimo periodo c’è stata un’impennata di grandi professionisti del mondo del bar che ha dato una svolta, ma ora è per me il momento di recuperare il concetto dell’accoglienza del cliente, del cliente al centro del bar e non del bartender al centro del bar ed il cliente in posizione di sudditanza. Quello che ho notato, da quando son tornato da Londra, è che c’è un mancato approccio alle necessità del cliente e l’ego del barman diventa sempre più grande. Il cliente, qui al Majestic, è un cliente di un certo livello, che ha girato il mondo, che è abituato ad essere servito in un certo modo, è un cliente che cerca la bella chiacchierata con il barman, cerca i consigli, cerca delle indicazioni su cosa fare o dove andare. Il drink lo spieghi sul menù, il mio è un menù descrittivo, quindi il drink diventa la connessione fra te e il cliente. Il cliente deve sentirsi a casa così si possono instaurare altri tipi di relazione. I clienti nel grande albergo vivono sotto una campana di vetro che li protegge, quindi tu devi capire quali sono le loro esigenze senza chiederle. Una volta che capisci quello, essendo anche un po’ uno psicologo dietro al bar, il cliente ricerca la figura del “consigliatore”, di quello che li sta a sentire e che instaura con loro un certo tipo di conversazione. A quel punto le difese si abbassano e diventano più rilassati e la dimensione cambia.
Nella tua carriera un ruolo fondamentale lo ha svolto la tua permanenza a Londra…

Londra è casa. Sono partito a 27 anni e ho ricominciato da zero… gavetta, gavetta, gavetta perché non parlavo inglese. Ho iniziato di nuovo come barback anche se qui gestivo un locale ad Ariccia. Arrivato lì mi si è aperto un mondo, soprattutto dal punto di vista dell’hosting. L’attenzione maniacale dei dettagli, la sacralità dell’accoglienza, il rispetto per tutte le professioni. Londra è stata una scuola di vita più che una scuola di bar. Certo c’è stata tanta crescita professionale, tante degustazioni, ma soprattutto a livello personale. L’ultimo giorno al Corinthia di Londra, dove ho fatto l’apertura, nel Basoon bar c’era l’ex Ministro della difesa inglese Liam Fox, un cliente abituale. Lui mi disse, “allora ci vediamo domani”, e io gli risposi “mi dispiace Mr.Fox, parto per l’Italia, mi hanno chiamato per fare un progetto giù”, e lui, alzandosi fra le due guardie del copro, mi ha detto “mi dispiace” e abbracciandomi “vai giù, divertiti e spacca tutto”. Questo perché mi reputava un professionista, mi reputava una persona e si era creata una relazione fra persone, non fra professionista cliente, che aveva portato a fare si che si creasse una sorta di conoscenza. Quella te la porti dietro a vita.

Com’è nata l’idea di trasferirti a Londra?

Il mio migliore amico, quando io avevo 22 anni, dopo aver aperto un estivo a Marino, partì per Londra per andare a lavorare in un nuovo posto. Questo posto, oggi, è uno dei cinque migliori cocktail bar di Londra, e, già allora, aveva una selezione di oltre 200 distillati. Così son iniziati i miei viaggi a Londra, quattro o cinque volte l’anno. Ho iniziato ad acquistare i primi jigger, nel 2003, a prender bottiglie nuove per l’Italia che portavo ad Ariccia. Da lì parte la conoscenza di questo nuovo mondo, la Londra dell’exploit del bartending, con i primi barshow. La voglia di tornare stabilmente lì è cresciuta nel tempo finché non ho sentito che era venuto il momento, ho lasciato perdere la carriera di fisioterapista e ho preso il bartending come lavoro.

Perché proprio a Londra e non magari New York o altre capitali si è avuto questo exploit del bartending?

Perché gli americani, secondo me, bevono di più ma non hanno così tanto palato, non hanno quella storia lunga che ha la Gran Bretagna. Londra è il melting-pot del mondo, il paese che aveva le colonie più grandi, e porta con sé questo bagaglio culturale. La gente è più abituata a certi sapori così come è abituata a lavorare in un modo che sia molto qualitativo; anche facendo i numeri ma sempre guardando alla qualità. Non si sono mai piegati a quello che, negli anni ’90, era un po’ il buco nero del bartending, a questa grande lascività sulla qualità. I più grandi bartender sono andati lì, c’è stata una grande ricerca, grandi investimenti.

A Londra, così come a New York, si è riuscito a coniugare la qualità con i grandi numeri, da noi invece la miscelazione di alto livello è ancora affare per pochi. Pensi che si riuscirà mai a raggiungere il livello inglese o americano?

Ci si potrebbe riuscire subito e immediatamente. Noi abbiamo un approccio molto più informale di loro e saremmo più in grado di farlo. Il problema di fondo è l’ego. Nel momento in cui si mette al centro del discorso il cliente si capisce che se tu ti metti come cliente in primis e giudichi te stesso ti rendi conto di tanti gap che dovresti colmare per raggiungere quel tipo di discorso. Quando l’obiettivo del barman diventa far del bene al cliente, nel miglior modo possibile, cercando di fargli passare la miglior serata della sua vita, a quel punto potremmo obiettivi anche più grandi di Londra.

Giampiero

Dal cinema al whisky il passo può esser breve. Basta fare un viaggio in Scozia, perdersi magari nel cuore delle Highlands, e ritrovarsi a chiacchierare in un piccolo pub di Ullapool parlando di torbatura e imbottigliamenti. Nasce così una passione travolgente, girando l’Italia, l’Europa (e non solo) di degustazione in degustazione, di locale in locale... alla scoperta del meglio che questo universo può offrire. Cocktail preferito: Rob Roy Distillato preferito: Caol Ila 25 yo

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