Il Laphroaig, compagno di viaggio “controverso”

Cosa c’entra il noto whisky di Islay con un premio letterario? Le attinenze ci sono, scopriamo il perché.

Metti insieme un premio letterario inconsueto e un whisky altrettanto inusitato. Da un lato un libro, il miglior compagno di viaggio per chi si reputa un ‘lettore’, dall’altro un whisky che, per usare l’espressione della brand ambassador Cristina Folgore, “è come una motocicletta, una Harley: la ami o la odi”. Ecco,

Cristina Folgore durante la degustazione

Cristina Folgore durante la degustazione

Laphroaig e il premio letterario Augusta sono una classica accoppiata perfetta, un fratello e una sorella separati alla nascita che oggi si sono ritrovati in quel di Mantova, presso il Teatro Sociale. A fare? A tenere a battesimo la prima edizione di un premio dedicato agli scrittori esordienti. Una scommessa sui talenti nostrani, supportata da un whisky già talentuoso di suo, che, proprio come molti scrittori affermati, si è fatto strada nel tempo. E’ passato indenne sotto il divieto di somministrazione e vendita di alcolici, durante il proibizionismo americano. “Troppo torbato, a qualche ufficiale di dogana dovette sembrare imbevibile”, racconta la Folgore, “e lo fece passare come medicinale”. La storia del Laphroaig è costellata di eventi assurdi, fin dalle origini. Aspra fu la battaglia legale contro una distilleria rivale, sorta proprio di fronte, che voleva utilizzare la stessa acqua sorgente. Il caso si risolse con la morte di uno dei gestori per via di una febbre. Un altro evento luttuoso segnò il percorso di Laphroaig: a trentuno anni dalla fondazione, nel 1846, Donald Johnston , uno dei due fondatori, dopo aver rilevato le quote dal fratello Alexander, morì cadendo dalla vasca di fermentazione. Il suo successore, il figlio Dugald, aveva solamente 11 anni, per questo a traghettare l’azienda fino alla maggiore età del rampollo ci pensò Walter Graham della distilleria

La distilleria di Laphroaig

La distilleria di Laphroaig

di Lagavulin, oltre che zio del ragazzo. Fu con quest’ultimo che cominciò poi a formarsi il noto marchio, consolidato in seguito dalle attività manageriali di Ian Hunter, pronipote di Donald. Ian sedette a capo della distilleria durante il proibizionismo. Spesso dunque era assente, trovandosi all’estero per impegni di lavoro e a tirare le redini si ritrovò una donna – altro particolare, se si vuole, ‘controverso’ di questa storia, visto e considerato il periodo – Bessie Williamson. La ragazza, entrata dapprima come segretaria, era diventata master distiller e alla morte di Ian, in mancanza di suoi successori consanguinei, ereditò tutto. Oggi, dopo un passaggio alle multinazionali, Laphroaig cerca di rinsaldare il legame con le origini, di distilleria scozzese a conduzione familiare, attraverso il radicamento sul territorio e mantenendo le vecchie tradizioni. Distillery manager dell’azienda è, infatti, John Campbell, nativo proprio di Islay. Anche l’orzo, caso raro nel mondo del whisky, viene prodotto in casa e, per finire, ha messo a stipendio tre persone che utilizzano i vecchi attrezzi per girare il malto, come si faceva fin dalle origini.

Laphroaig e l’esperienza olfattiva

Laphroaig 10 anni.  Se non avete mai messo piede ad Islay e non vi siete nemmeno avvicinati alla

Laphroaig 10

Laphroaig 10

distilleria di Laphroaig, non potete aver percepito quanto l’odore nei suoi pressi ricordi olfattivamente quello di un bicchiere dello stesso whisky: sale e torba. Sono le caratteristiche di una distilleria sul mare, la cui magia è proprio il sale. Le botti di quercia bruciata regalano note di vaniglia e caramello, ma è quel ricordo marino che colpisce. Deriva dal fatto che le botti riposano a contatto con l’acqua del mare. E quando ciò non accade, qualcuno si assicura che siano appositamente bagnate.

Laphroaig Quarter Cask. A differenza del classico ‘dieci’ che fa un passaggio in botti da 500, quest’ultimo riposa in ‘quarti’ da 125, dai cinque ai sette anni. Pertanto è più a contatto con il legno e la torba si va un po’ a perdere. “Più legno, meno fumo” come dicono da quelle parti. In compenso esce fuori più colore e una certa dolcezza. Anche la gradazione è più elevata. Con l’aggiunta di acqua rivela una grande dinamicità, ogni sorso diviene una scoperta.

Laphroaig Select

Laphroaig Select

Laphroaig Select.  Si tratta di un prodotto frutto di una particolare selezione, effettuata da esperti, appassionati di whisky, un club di ‘assaggiatori’ della selezione di invecchiamenti. Gli affinamenti considerati sono diversi, legati a botti ex sherry, quercia bianca americana, Pedro Ximenez, Quarter Cask e ex bourbon. Sempre presente l’aspetto salino e la torba, ma il whisky presenta una maggiore morbidezza. Con l’aggiunta di un po’ di acqua si percepiscono con più vigore le note di fumo, mentre in bocca la torba svanisce e predomina il sale.

Il premio Augusta

Il premio letterario (qui maggiori informazioni sul premio) si lega all’iniziativa ‘capitale italiana della cultura’, titolo che quest’anno è stato conferito a Mantova. I finalisti, scelti in base a una votazione del pubblico, si sono ritrovati presso il Teatro Sociale della città dei Gonzaga, dove una giuria di esperti ha decretato il vincitore assoluto del premio Augusta. Si tratta di Gabriele Di Fronzo, con Il grande animale

Quasi Come Sembra

Quasi Come Sembra

(Nottetempo edizioni). Il supporto di Laphroaig non si è limitato a far da padrino al concorso letterario, ma l’azienda ha eletto un vincitore per – non poteva essere altrimenti – l’opera più controversa. Il titolo è andato a Massimo Lapolla e al suo Quasi come sembra (Edizioni La Gru) con l’omaggio di un Laphroaig 18 anni.
Un connubio sui generis, se si vuole, quello tra spirits e letteratura, ma quale occasione migliore per diffondere la cultura del buon bere responsabilmente se non proprio in compagnia di un libro? A questo punto avete tutto per immergervi nelle ‘controverse’ letture.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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