L’Eco del bar

Il semiologo e il suo “Martini cocktail”, il nepente, “segno di civiltà”. Tre è il numero “minimo di cui un gentiluomo ha bisogno”. È riuscito a berli ovunque, persino sulle rive del Niger, indottrinando il barman, da bravo docente. Il migliore? All’Harrys’ di Venezia e “quello che ti fai a casa”, ma…

Il mondo della cultura soprattutto, ma non solo, ha pianto in questi giorni la dipartita di Umberto Eco. Il professore, il filosofo, il semiologo, il bibliofilo, il medievista; Eco era un uomo assetato di saperi. I media, infatti, nel celebrarne il ricordo, hanno passato in rassegna tutta la sua opera:  dai libri eruditi agli articoli più ‘leggeri’ che spaziano dal fumetto al cinema, da Superman a James Bond. Pochi sanno, invece, che il noto intellettuale ha compiuto qualche incursione anche nel mondo del Bar. S”i tratta

Umberto Eco

Umberto Eco

ovviamente di quella parte della sua produzione meno seria e più faceta, ma non per questo trascurabile. Riteniamo corretto che il mondo del bar ricordi un personaggio così importante che, seppur di striscio, è riuscito a lasciare la sua presenza al bancone, anzi ai banconi di molti bar sparsi per il mondo. Anche in questo settore, la competenza dimostrata è stata davvero straordinaria.
Sappiamo che aveva l’abitudine di riunirsi con altri amici e intellettuali presso il bar Meda di Milano. “Certe sere quella saletta faceva pensare alle Giubbe Rosse (…). Ricordo quelle serate come occasioni epiche, e il dialogo generazionale non è stato infruttifero, almeno per noi”. Ma non lo vogliamo ricordare per questo aspetto. Eco era un ‘martiniano’, un bevitore ed estimatore del più ‘algido’ dei cocktail. Non abbiamo scelto di usare a caso l’aggettivo “algido”, ossia freddo, gelato, per parlare del ‘suo’ Martini. Spieghiamone il perché, riportando la filosofia sul “Martini cocktail” di un vero martiniano quale è stato appunto Umberto Eco.

Prolegomeni al Martini

Nel 2000 esce in Italia il libro “Ed è subito Martini” per la collana di Lettere della Archinto editore. SI tratta della versione italiana del libro di Lowell Edmunds, “Martini, Straight Up” , uno dei pochi e ottimi

Ed è subito Martini

Ed è subito Martini

testi pubblicati sul famoso cocktail. Nel maggio del 2014 viene pubblicata una nuova versione riveduta e corretta e chi scrive la prefazione? Proprio il nostro Umberto Eco, il quale, in “Prolegomena al Martini”, precisa fin dall’inizio che “siccome mi è stata sollecitata, non ho potuto sottrarmi a questo compito in nome del nepente che affratella prefatore, autore e spero molti altri devoti lettori”. Fin da subito, dunque, Eco mette in chiaro il suo ‘amore’ verso il “Martini cocktail”, che, da grande erudito, definisce “nepente” (bevanda che lenisce il dolore, dal gr. nēpenthḗs). Come tutti i martiniani, poi, Eco ama essere ‘coccolato’ dal bartender, ha bisogno di rifugiarsi in quei luoghi dove sentirsi come a casa. La sua ambizione più grande, da questo punto di vista, sarebbe quella di “avere in ogni città del mondo un bar dove posso entrare e dire, in prima istanza, ‘il solito’, e possibilmente un altro dove non debba dire nulla, e mi venga automaticamente servito un Gin Martini on the rocks, ovviamente in proporzioni 16:1”. In questa frase c’è tutto l’Eco che la stampa ha dipinto in questi giorni: geniale, colto ma anche appassionato di cultura pop e spesso sostenitore di tesi opposte a quelle dominanti. È probabile, infatti, che a leggere la frase citata un martiniano si possa sentire offeso da quel suo modo di bere “on the rocks”, interpretandolo come un atto di sacrilegio contro il rituale del “Martini cocktail”. Il professore invece su quel punto non transige: “Non voglio discutere con nessuno le mie preferenze, perché io voglia il ghiaccio nel bicchiere, e un bicchiere cilindrico ampio e basso. Questo libro spiega a sufficienza come non ci sia un Martini assoluto. Inoltre il ghiaccio nel bicchiere certamente diluisce, ma proprio per questo permette di avere, nel corso della seduta, non uno ma almeno tre Martini – il minimo di cui un gentiluomo ha bisogno per superare lo spazio drammatico tra una giornata densa di attività e una serata che si annuncia altrettanto faticosa”. Avrebbe rinunciato al

L'Harry's Bar di Venezia

L’Harry’s Bar di Venezia

ghiaccio solo per il Martini dell’ Harry’s Bar di Venezia “gelato al punto giusto”. Esigente, dunque, intenditore e vizioso come tutti i martiniani lo sono. La questione dell’ on the rocks la spiegò un giorno, molto bene, Mauro Lotti, uno degli ultimi storici bartender nostrani. Lotti, proprio riferendosi a Umberto Eco disse che il modo di bere un Martini col ghiaccio è tipico di tutti gli intellettuali, i quali amano parlare molto durante la serata, e pertanto vogliono rimanere il più a lungo possibile lucidi. Il problema maggiore per un martiniano, però, come sa chi appartiene a questa particolare categoria di bevitori, è trovare un bar dove bere al meglio l’amato “nepente”. Su questo punto Eco racconta di aver bevuto da molti bartender in giro per il mondo e di aver trovato soddisfazione negli hotel internazionali. Al di fuori di quell’ambiente “bisogna sovente educare il barman, spiegandogli per filo e per segno come deve procedere”. Un martiniano è comunque un gentiluomo, non andrà mai al bancone a dettare le regole. Troverà semmai il modo più naturale e gentile possibile per farlo. Un savoir faire che senza dubbio alcuno più volte avrà mantenuto lo stesso Eco (resta il fatto che ciò non fa onore a una casta professionale che dovrebbe garantire quanto meno una buona qualità di quel cocktail). Procedendo nella lettura dei Prolegomeni, il semiologo mostra tutta la puntigliosità – potremmo dire il lato nerd – tipico di un “Martini cocktail” lover: “Ho certamente a Bologna tre bar in cui non debbo dire nulla, e due a Milano, ma nessuno a Parigi, per la semplice ragione che in Francia non sanno fare un Martini, neppure se tenti di spiegare il procedimento direttamente al banco. So di andare sul sicuro al Peninsula di Hong Kong e all’Otani di Tokyo, e sarei pronto a scommettere sul Raffles di Singapore (…) né si creda che gli Stati Uniti siano l’ideale, perché è vero che sanno sempre che cosa stai ordinando, anche nel più smandrappato ristorante cinese, ma tendono a eccedere col ghiaccio e rischi di bere acqua fresca”. In questa carrellata ricorda persino un “Martini cocktail” decente bevuto sulle rive del Niger, non lontano da Timbuctu, ma “dopo un corso accelerato”. Questo era l’Eco del bar, che tra un convegno e un premio in giro per il mondo, andava alla ricerca del suo Martini perfetto, come tutti i martiniani. Le parole più belle forse le ha scritte su questo argomento: fermo restando che il Martini migliore rimane quello che

Un Martini Cocktail on the rocks

Un Martini Cocktail on the rocks

ciascuno si può fare a casa, sorgono a quel punto una serie di questioni: “Se devi scegliere un whisky o un cognac, basta che tu conosca le marche, e l’annata (ed è materia quasi squisitamente teoretica) e poi non hai che abbandonarti alla degustazione. Il Martini invece è materia eminentemente artistico-manipolativa, e alla fine sei tu che verrai giudicato (anche da te stesso), non la marca del gin – tanto che, oserei dire, il momento magico del Martini è quello in cui lo si fa, non quello in cui lo si consuma”.
Chiude la prefazione con un pizzico di narcisismo (i martiniani, a proposito, lo sono sempre, anche se non lo vorrebbero dare a vedere) e cita se stesso, ovvero un brano tratto da Il pendolo di Foucault (capitolo 36), in cui si dice: “Il martini è essenziale. Non il whisky, il martini. Il liquido è bianco, alzi il bicchiere e la vedi dietro l’oliva. Differenza tra guardare l’amata dietro il martini cocktail dove il calice triangolare è troppo piccolo e guardarla attraverso il gin martini on the rocks, bicchiere largo, il suo volto si scompone nel cubismo trasparente del ghiaccio”. Il problema in questi casi è “trovare l’amante a disposizione (quella del momento, perché il Martini è per amori brevissimi e tempestosi) proprio quando sbarcherai al Raffles di Singapore. Ma questo è un altro discorso”. Sarebbe bello poterlo ascoltare, quel discorso, ma non si può più. Noi gli auguriamo di raccontarlo a qualcun altro, ovunque si trovi ora.
Vorremmo ricordarlo così, Umberto Eco, proprio come ‘uno di noi’, come un martiniano che, assetato di sapere, ha trascorso la vita cercando la fonte della propria giovinezza. Prosit professore.

Per chi ne avesse voglia, Umberto Eco scrisse sul settimanale L’Espresso, nella rubrica da lui stesso curata, ‘La bustina di Minerva’, un articolo che dimostra le sue conoscenze sulla storia del Martini cocktail e di come si sia evoluto nel corso del tempo.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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