Un gin martini “quanto basta”

Il re dei cocktail raccontato dal decano dei ‘martiniani’. Lotti: “Nessuno potrà mai impadronirsi della  sua ricetta. Il segreto? Sta nella misura del vermouth, che però non ha regole”

Si è svolto il secondo appuntamento del The Gin Masterclass al The Gin Corner dell’Hotel Adriano  di Roma. Si parlava di “Martini cocktail”. Nello specifico, a farlo è stato invitato Mauro Lotti, un vero  martiniano Doc. Il suo “Oyster Martini” ancora fa il giro del mondo, ma berlo fatto dalle sue mani e  sentirlo raccontare dal suo ideatore, è tutt’altra poesia. Urge, prima di andare avanti, una piccola  premessa: il martiniano è un bevitore a sé stante, che va ben oltre le mode del tempo. Di  martiniani ce n’erano oltre mezzo secolo addietro, come ve ne sono oggi. Cosa è cambiato?  Sostanzialmente nulla. La ricetta, dirà qualcuno, la composizione del cocktail. Tecnicamente ciò è  vero, ma non è argomento di cui si dovrebbe tenere conto. Perché? Questa è stata la verità  svelata da Lotti. Scopriamola insieme.

Un momento del master

Un momento del master

Attendiamo seduti che il signor Lotti parli. Qualcuno smorza l’attesa con un “Gin tonic”, cordiali  strette di mano, colloqui rilassati e a bassa voce, sorrisi fugaci. L’atmosfera cresce, “eccolo, è lui,  è arrivato”. Il ‘volume della sala’ sposta l’asticella in su. Il ‘maestro’ sta per salire sulla pedana,  ognuno segue il diapason per ‘accordarsi’ all’ascolto. E’ un po’ come quando un’orchestra  accorda gli strumenti: l’iniziale e confuso suono di ciascuno lentamente si unisce in armonia,  crescendo di intensità. Il caos diviene armonia, poi il silenzio. Quello che introduce il primo suono.  Si agita la bacchetta: “Sono le 19:30, direi che ci siamo. E’ la nostra ora viola”. La famosa ora  viola, quella “in cui gli adulti escono a giocare”. Vorresti non finisse mai di raccontarla. Il tempo si  dilata, specie quando si parla di “Martini cocktail”. L’unico cocktail sopravvissuto alle epoche  passate e alle mode. Perché? “Perché nessuno ha la sua ricetta. E sarebbe inutile trovarla.  Nessuno dovrebbe impadronirsi del “Gin martini”. La sua ricetta è la più semplice del mondo: 50 ml  di gin e… vermut dry. Sì, ma quanto esattamente?”. La risposta è lì, sappiamo di conoscerla, Lotti  ci sprona a crederlo, ma poi quando arriva è di quelle che non ti aspetti. Ognuno di noi vorrebbe  dirlo, pensa di saperlo e di essere nel giusto. Poi Lotti svela la famosa quantità: “Qb. Quanto  basta. E su quel quanto basta si discute da 150 anni e si continuerà ancora. E’ probabilmente  questa la forza del “Martini cocktail” ”. L’esperienza ci insegna che più o meno ogni 20 anni subiamo  uno slittamento di gusto e allora il “Gin martini” è lì pronto ad adeguarsi, sempre. Parti uguali di gin  e vermut, poi gin che dal dolce ‘Old tom’ passa al secco ‘London dry’. E così, ancora, si torna a  giocare col vermut: dry e dolce insieme per un “Perfect martini”. La dura epoca del Proibizionismo  non lo spegne, anzi, entra in scena il dry francese. E la nuova era post proibizionista viene  inaugurata proprio da un “Martini cocktail”, preparato dal presidente americano

Mauro Lotti al Gin Corner

Mauro Lotti al Gin Corner

Roosvelt, che lo  amava ‘dirty’, sporcato con la salamoia delle olive. “Oggi il Dirty martini è il più bevuto al mondo”,  racconta Lotti. Gli americani ne vanno matti, hanno persino messo in commercio una boccettina  di sola salamoia. C’è stato un periodo, dunque, in cui l’oliva ha avuto la sua rivincita sul limone. E  anche qui, quale il numero esatto? Per gli americani almeno 3. Ci fanno un pranzo, potendo. Non  è soltanto una battuta. “Nel 1976, quando Jimmy Carter salì alla Casabianca, da bravo astemio  buttò via tutte le bottiglie presenti e se la prese con i colletti bianchi. E’ una storia vera, quella dei  three martini lunch”. Mad Men docet. Come nel noto serial Tv, negli anni ’50, ’60 e ’70 molti  uomini di affari e dipendenti aziendali nella pausa pranzo eccedevano con il numero di “Martini  cocktail” e li detraevano anche dalle tasse, come per il resto del pranzo (semmai lo facessero!). La  cosa fece andare su tutte le furie il presidente astemio – impegnato in verità in una lotta allo  spreco ­ che vietò quella consuetudine. “Successe un parapiglia”, racconta Lotti, “qualcuno si  prese la briga di far fare una ricerca ‘scientifica’, che dimostrò come le olive del martini fossero  abbastanza proteiche, quindi erano considerabili come lunch”. Con le presidenze successive si  procedette a una detassazione sempre maggiore.  Anche nella tecnica, il Martini cocktail stupisce e non offre certezze granitiche. “Nei vecchi ricettari  si shakerava. Poi cambiò. Miscelato per adagiare delicatamente gli ingredienti come voleva lo  scrittore Somerset Maugham, fin quando non giunse un altro scrittore, Ian Fleming e il suo 007  con il “Martini agitato”. Morale della favola? “Il Martini cocktail si fa come il cliente vuole. Spesso  noi bartender ci presentiamo ai suoi occhi come degli accademici, invece dovremmo farlo divertire  e, perché no, spendere…”. Su questa freddura degna di nota è scattato un applauso. Segno di  come le parole di Lotti abbiano

Mauro Lotti e Patrick Pistolesi

Mauro Lotti e Patrick Pistolesi

intercettato le cattive tendenze di oggi. Abbiamo sempre da  imparare dal ‘maestro’. Finita la lezione ci buttiamo su una serie di “Gin martini” con Bombay  Sapphire, compreso il ‘suo’ Oyster. Ma c’è ancora tempo per un’ultima storia, quella del Martini  ‘riposato’. “L’ho appreso al St. Regis. La gente era in fila per bere il proprio Martini cocktail. Ogni  barman aveva due clienti per volta. A me incuriosì quello che lo preparava in quel modo”. Di  fronte a una importante mole di lavoro, quel barman lasciava ‘riposare’ il gin martini sul ghiaccio,  ottimizzando tempi e energie. Allo scrocchiare dei cubetti, lo filtrava in coppa. Giusto, sbagliato?  Che importanza ha? Ognuno avrà sempre il suo “quanto basta”.

Le foto utilizzate sono state scattate da Andrea Chiodi

Per info e prenotazioni: eventi@hoteladriano.com

 

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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