La verità sul martini di Oppenheimer

Dopo il film di Nolan, ha spopolato la ricetta col lime e miele, già nota da tempo, che adesso riemerge senza una corretta spiegazione di quei martini che invece hanno tanto da raccontare

Oppenheimer è stato un fisico, di una certa caratura, col ‘vizietto’ di bere martini. La vicenda è nota da tempo. Ospiti del passato hanno raccontato di essersi imbattuti in quelle coppe ben fredde distribuite dal Dr. J. Robert Oppenheimer, quando, a un certo punto dopo cena, mescolava egli stesso quattro once di gin, uno sputo di vermut e indorava la potente pillola con una bordatura di miele e lime.

Ora, se proprio dobbiamo parlare di quel Martini, facciamolo in modo sensato. La ricetta forse, per i martiniani duri e puri è un po’ anomala – non sappiamo se dettata dal gusto personale o dalle necessità – ma con un’analisi più approfondita possiamo comprendere quanto il cocktail del noto fisico sia ricco di significati ben più profondi e reconditi che meritano di essere esplicitati. Il successo del film di Nolan ha rispolverato la vicenda, generando il solito copia e incolla di numerosi siti di informazione. Nei mesi successivi alla nomination, il “martini di Oppenheimer” era diventato un buon riempitivo per le testate generaliste, ma anche un articolo bene in vista su alcuni siti ‘di settore’, ribadito sui social, ma senza alcun reale approfondimento di una vicenda che, come detto prima, era ben conosciuta. Da qui la scelta di spingerci in una analisi più argomentata.

“Oppie”, a destra, in uno dei cocktail party a casa sua

Partiamo dalla foto di copertina. Partiamo da qui (e rimaniamoci a lungo), perché in essa ci sono un po’ tutti gli elementi che vorremmo portare alla luce. Quella foto sintetizza un certo mood in voga negli anni ’40-’50. Osserviamo bene i personaggi. Ipotizziamo si tratti di uno di quei momenti in cui il nostro ‘Oppie’ (il primo uomo da destra) e gli altri che collaborano al Progetto Manhattan, si ritrovano, anche con le consorti, in casa dello scienziato per un po’ di svago. Le cene, da quanto apprendiamo, sono accompagnate spesso dai martini preparati dallo stesso Oppenheimer. E fin qui nulla di nuovo, ma continuiamo a osservare la foto. Ci sono uomini in abito con cravatta e donne ben vestite. Dagli sguardi, si intuisce pure che ognuno è in relazione con qualcun altro, ognuno sta seguendo una conversazione, ognuno partecipa alla festa. Non si sottrae, non si isola. Si tratta, a tutti gli effetti, di un cocktail party. Espressione sulla quale non si riflette mai, eppure è indicativa –  come la foto –  di codici di comportamento, tipici del periodo in esame. Quei codici costituiscono le regole di decoro su come relazionarsi all’interno di un preciso livello sociale. La loro logica è – non poteva essere altrimenti a quei tempi – binaria nel genere. L’uomo da un alto e la donna dall’altro, interpretano i rispettivi ruoli. A quella logica non si sottrae neppure il martini di Oppenheimer.

I martini nei cocktail party casalinghi: Oppie è un maestro, ma di cosa?

La fotografia che abbiamo scelto come copertina è il miglior quadro di quello che stava per succedere tra gli anni ’40 e ’50, tra la guerra e soprattutto il dopoguerra. Ci riferiamo a un importante cambiamento sociale che riguarda in particolare la middle-class che, specie dopo la guerra, si lancia sulla cresta dell’onda del crescente consumismo. La casa di un borghese (Oppenheimer lo è) si riempie di mobili, merci, persone. Lo scienziato in quel momento è un po’ un privilegiato, avendo a disposizione da parte del Governo americano gli alloggi migliori della base a Los Alamos. Tutta la classe media, dopo la fine della guerra, avrebbe seguito il suo esempio. Da questo punto di vista la foto copertina è il riflesso di quanto sarebbe accaduto per almeno un decennio nelle famiglie medie americane. Consideriamo che nel momento in cui si svolgono gli studi del Progetto Manhattan, solo il 30% dell’alcol viene consumato in casa, una abitudine destinata a crescere immediatamente negli anni a venire. Con l’aumento dei consumi, delle case di proprietà, si incrementano anche le attività ‘at home’. E tra le attività domestiche preferite dalla middlle-class, c’è quella del cocktail party. Perché? Perché costituisce un momento non solo di socievolezza, ma offre al borghese medio la possibilità di distinguersi, dimostrando una certa abilità e raffinatezza. Nel decennio precedente alla nostra foto il medio borghese per il bere raffinato sceglieva sicuramente un Martini o un Manhattan. Ricordiamo la fortunata serie di film in cui i detective Nick e Nora Charles (alias William Powell e Myrna Loy) si ingollavano Martini in eleganti bar di albergo. L’ultima pellicola esce nel 1947, anno in cui registriamo un deciso cambiamento nei modi di bere in società. Il trasferimento di un sempre maggior numero di persone dalla città alle zone suburbane, trasformano tempi, modi e luoghi del bere. Il cocktail si fa e si scopre anche un po’ meno urbanocentrico, si sposta nelle periferie, quindi nelle case in cui la classe media sceglie di vivere, i sobborghi di New York, ad esempio. In contemporanea, la fine della Seconda guerra determina una impennata dei consumi casalinghi di alcol, portandoli al 70%. Il motivo è evidente. Per chi ha scelto di vivere fuori città, ci sono meno occasioni di bere al bancone di un bar. E se Maometto non va alla montagna… Hollywood fotografa quel cambiamento in numerosi film. In ‘La casa dei nostri sogni’ è sempre Mirna Loy a ricordare al marito (Cary Grant), pubblicitario di New York, di quell’architetto conosciuto, guarda caso, a un cocktail party, cui chiedere aiuto per la ristrutturazione della nuova casa, a un’ora dalla Grande Mela. Nei loro progetti, ognuno pensa ai propri spazi: lui immagina una sala da gioco, un bar; la moglie desidera una stanza per cucire abiti. Si delineano così gli stereotipi della famiglia americana basati sulla logica di genere binario: il bar in casa serve per organizzare il cocktail party, è il regno del maschile, in cui l’uomo di casa può dimostrare ad amici, vicini e colleghi di essere all’altezza dello status di borghese. Tanto più dimostra esperienza in questo, quanto più sarà apprezzato e considerato. Perché, attenzione, fare un martini in casa richiedeva un set da cocktail, attrezzi veri da bar, oggetti di scena per la nuova pantomima e, naturalmente, esigeva il giusto costume. E qui veniamo al cocktail inteso come abito e al ruolo femminile. L’esigenza di una donna (come Mirna ad esempio)  di avere determinati spazi nella casa nuova, in cui cucirsi un abito per i party, ha la stessa motivazione dell’uomo: sembrare all’altezza della situazione. Tanto l’abito da cocktail quanto il bicchiere da martini non sono decorativi, begli oggetti da avere. Sono la manifestazione di un simbolo. Avere il giusto abito (fatto di metri di stoffa costosa) e costruire a mestiere un martini, sono sinonimo di ricchezza e, soprattutto, conformità, esprimono accettazione e condivisione di regole comuni tra propri simili. In un contesto da cocktail party ogni elemento (bicchieri, vestiti, persone, cocktail) svolge un compito preciso, è lì per un motivo e deve essere chiaro a tutti. L’esperto di cucina James Beard aveva intuito la crescente importanza di quel rito sociale. In un capitolo del suo libro, ‘Hors d’Oeuvre and Canapés’ (1940), intitolato ‘The Key to the Cocktail Party’, scrive: “Il cocktail party non significa più una bottiglia di gin, una lattina di sardine e un pacchetto di patatine presi al supermercato all’angolo. È diventato una parte integrante del programma di intrattenimento di ogni famiglia, grande e piccola. Per chi possiede un monolocale è la soluzione per estendere l’ospitalità nei limiti dei propri spazi; e per il proprietario della grande casa è il grosso assegno per pagare vecchi debiti sociali. È un’istituzione, è divertente, tira fuori il meglio e, talvolta, il peggio, in tutti noi”.

Insomma, il nostro fisico nucleare era, come sosteneva ‘Esquire’s Handbook for Hosts’ del 1949, un Ph.D. in drinkology. Battute a parte, il Manuale in questione dava suggerimenti dettagliati su come mettere su un bar in casa e nel capitolo ‘The Five O’Clock Whistle Whetters’, ammoniva: “Mescolerai un centinaio di Martini, Manhattan o Old-Fashioned”.

Ripensare al cocktail dello scienziato dopo queste informazioni, forse ce lo farà inquadrare in un altro contesto. Dietro al rito del cocktail party in casa e del relativo Martini vi si può leggere una logica di genere incasellata in regole precise. Ognuno (inteso come uomo e donna) ha il suo ruolo e il vestito adatto. L’abbigliamento che vediamo nella foto con Oppenheimer e gli altri ospiti, rispetto a quello dei successivi anni ’60, è meno ambiguo. Quello scatto fotografa un  momento e un contesto in cui il genere e la sessualità sono prescritti. La presenza di regole precise di decoro comporta che ci sia meno spazio per le ambiguità. Tuttavia offre maggiore libertà di quanto non si creda. Capiamo perché. In quel tipo di codici mainstream, l’uomo è l’uomo, la donna è donna e, osserviamo sempre la foto, ne scorgiamo bene tutti i segni. L’abbigliamento da cocktail party maschile è pressoché uniformante. Non desta sospetti. Quello femminile, al contrario, non essendo né da giorno né da sera, può osare di più, in termini di colore o di tessuti, ad esempio. In tal senso è in grado di trasmettere una molteplicità di messaggi. Solitamente era simile a quello diurno, ma con stoffe più preziose e luccicanti.

Il gioco sociale del martini

Cocktail versati alla Oppenheimer House nel 1946, un anno prima della fine ufficiale del Progetto Manhattan. (Foto: Società storica di Los Alamos)

Quando donne e uomini si riuniscono (come in casa di Oppenheimer), per condividere un breve momento di socialità col bicchiere in mano e qualche sigaretta, si ritrovano comunque sempre a interagire per un breve lasso di tempo ricompreso tra la fine del lavoro quotidiano e l’altra routine della cena. Un tempo sospeso, direbbe qualcuno, tra due routine, un momento privato di svago tra due ‘lavori’. Questo mette alla prova, al suo interno e per tutta la sua durata, le abitudini sociali cui uomini e donne devono attenersi. Un momento di gioco tra adulti, in cui in parte le regole possono essere ribaltate (un lungo aperitivo può sostituire la cena, per dire). Un momento in cui le regole binarie di genere sono sì piuttosto precise, ma il cocktail party e il suo martini possono costituire una parentesi temporale all’interno della quale esternare i propri bisogni e sentirsi liberi dalle costrizioni. E questo vale soprattutto per il sesso forte. Se un uomo può dare prova del suo gusto e stile mescolando bene un martini – ma avrebbe potuto mettere in campo anche altro – a una donna resta meno spazio di manovra, per quanto possa sentirsi alleggerita dal peso sociale di alcuni rigidi codici. Fino al 1969, infatti, le donne non possono iscriversi a un’Università come Yale. Per migliorare la propria posizione sociale, vivendo in contesti soprattutto extra urbani, può essere utile, se non necessario, curare il proprio aspetto e partecipare a un ritrovo alcolico in salotto.

Riepilogando, presenziare o organizzare un cocktail party significa mantenersi conformi alle regole suburbane della classe borghese, dimostrare quanto si è bravi nei comportamenti decorosi, a modo, ma se si preferisce, è anche una buona scusa per bere in libertà in un periodo comunque fatto di maggiori restrizioni rispetto a oggi. Ci piace pensare a questo, nel vedere la foto di quelle persone in casa di Oppenheimer, mentre offre i suoi martini. 

Fatta questa analisi, passiamo brevemente a un altro aspetto che merita una riflessione.

Oppie è un uomo di circa 37 anni, quando gli Stati Uniti iniziano la ricerca per l’atomica. Sulla carta non è il migliore. Ci sono premi Nobel, gente che avrebbe titoli per gestire il Progetto, ma quel figlio di immigrati tedeschi possiede una dote particolare. E’ uno che si butta a capo fitto. Si fa coinvolgere e dedica tutto se stesso alla causa, senza distrazioni. E’ la persona adatta per vivere il tempo necessario in un posto fuori dal mondo, come Los Alamos. E i dibattiti accesi che avvenivano a Bathtub Row, in casa sua, la sera, ne sono una dimostrazione. La stessa dedizione al martini, il fatto che lo volesse preparare lui stesso, per tutti, era un chiaro indice di quel carattere. Dopo anni, isolato nel deserto, raccontano vivesse di martini, caffè e sigarette. Come nella foto che abbiamo scelto per aprire l’articolo.Capiva che l’importanza per il suo team di sentirsi apprezzato. Il momento martini serviva a quello.

I martini di Oppenheimer

Un giorno a causa di un incidente, andò distrutta almeno parte di una base di Los Alamos. Al suo interno – si vociferava – era una bottiglia di vermut dry. A qualche buona penna pensante e stravagante venne in mente di costruirci sopra uno storytelling, che avrebbe fatto sicura presa in anni in cui il martini ormai si stava ‘prosciugando’ di quasi tutta la componente aromatica, rimanendo puro gin. Si trattava dell’Atomic Martini, bastava aprire la finestra, mettere fuori una coppa e aspettare che si ‘riempisse’ di molecole di vermut cosparse nell’aria dopo l’esplosione.

La bomba a idrogeno aveva scatenato ansie e paure nella società, si veda ad esempio il Dottor Stranamore e King Kong. Il martini atomico costituiva un modo per dissacrarle, ma dubitiamo fortemente che il nostro fisico nucleare abbia mai preparato un ‘fixable martini’, più verosimilmente Oppenheimer fu uno di quegli uomini che in gioventù avevano bevuto martini, lo avevano amato anche nel proibizionismo e a 40 anni continuarono a bere lo stesso cocktail. Più secco, come andava in quegli anni. Forse era la sua versione preferita, o forse non trovando facilmente vermut, si dovette adattare con altro.

Certo è che fu un mattatore delle serate che organizzava. Lo immaginiamo con quali occhi azzurri mentre tiene banco, preparando e servendo quelle enormi coppe a Y. Perfetto sacerdote di quel rito sociale, il quale, brindando, esclamava: “To the confusion of our enemies!”.

credits:
https://ladailypost.com/j-robert-oppenheimer-made-famous-martinis/
https://ginraiders.com/article/mixology/the-oppenheimer-signature-martini/

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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