Old Fashioned Month pt1

Pomigliano e la tradizione in evoluzione, Ischia con amore, Pescara e Roma in first class

Diario di viaggio alla scoperta degli Old Fashioned con Woodford, in 16 bar, espressione della modern era dei cocktail, ma declinata all’italiana

C’era una volta l’America degli Old Fashioned, che a forza di whiskey, zucchero e bitter spingeva il cocktail – nuova bevanda moderna preparata da baristi sempre più talentuosi e in carriera e che, come diceva Harry Croswell, confonde la testa, ma rende il cuore forte e audace – alla conquista delle eleganti superfici in mogano, estromettendolo dall’anonimato. Oggi celebriamo quel cocktail, fatto ancora con gli stessi ingredienti. Molto è cambiato, nel frattempo, ma rimane la costante: whiskey americano, zolletta di zucchero, bitter e un bar spoon a mescolarli col ghiaccio. 

In occasione dell’Old Fashioned Month, abbiano girato l’Italia e bevuto Woodford Reserve Bourbon, zucchero e bitter. Ogni bar selezionato aveva un menu dedicato, con tre Old Fashioned, un classico e due signature e una chicca, il profumo edibile di Oscar Quagliarini: al cliente la libertà di usarlo, al bartender la sfida di trovare corrispondenze e ispirazioni. Tante sorsate sono state accompagnate da un piccolo side, un cioccolatino di Romanengo, una delle più antiche confetterie d’Italia. Questo quel che sapevamo prima di partire. Dopo, è stato un equilibrio sottile tra emozioni e alchimie, ricercato dai protagonisti, ognuno con una propria sfumatura. È emerso, così, il quadro di un Paese  variopinto in cui ogni bar ha servito il suo stile, moderno e innovativo, ma con uno sguardo alle tradizioni, come è d’uopo per il bar all’italiana, con una precisa identità e senso di appartenenza. Un percorso che segue una ‘via nobile’ del cocktail, in cui il bar diventa meta di viaggi e lente di ingrandimento della società.

1 mese, 10 città,16 bar, 32 signature Old Fashioned, 4.964 chilometri, percorsi in compagnia di Francesco “Ciù Ciù” Spenuso, Advocacy Manager Brown Forman Italia.

Quello che segue è il racconto cronologico dei fatti, così come si sono svolti.

8 novembre – “Stamo a Pomigliano!”, ma pare Tribeca

Nella oscurità della strada deserta verso Pomigliano si disperdono gli avanzi di tensione che avevamo respirato con l’aria di Napoli per la partita di Champions. Ritrovo in stazione centrale e poi spediti per 16 kilometri appena, direzione: il cuore della pianura campana, tra Somma e i Campi Flegrei, Pomigliano d’Arco. Un cuore pulsante per due anime, quella industriale, figlia del più grande stabilimento automobilistico del Mezzogiorno e quella agricola più antica. Una chiave di lettura per comprendere meglio Laboratorio Folkloristico, che è sì a Pomigliano, quasi 40 mila anime, ma lavora che sembra il Flatiron Lounge di New York, primo high volume bar a servire cocktail signature alla massa e che fece dire a Robert Simonson: ”non serviva drink perfetti a pochi eletti. Serviva drink grandiosi a molti”.

Qui, al Laboratorio, troviamo mentalità, conoscenza, umiltà, clientela che sa divertirsi, ti siedi per una esperienza da metropoli internazionale “e stamo a Pomigliano!”, sottolinea la voce della coscienza di Ciù Ciù da Grumo Nevano, ma con la ormai tipica cadenza romana. Il viaggio sugli old fashioned con Woodford Reserve non poteva iniziare meglio di così. Pomiglianesi come Newyorkesi per le strade ciottolose di Tribeca, negli anni 90, quando cambiò la miscelazione. Beviamo e comprendiamo il lavoro di ricerca dei ragazzi ‘folkloristici’. Un percorso di studio che si concretizza, però, in una bevuta facile e comprensibile. Il trucco è quello: far sembrare facile il difficile. Facile come una mossa di briscola. Cali sul bancone il bicchiere vuoto con la stessa soddisfazione con cui i vecchi di paese spiattellavano l’asso sul tavolino in metallo nero col ripiano di laminato giallo smorto. I drink pensati per il Month sono soddisfazioni, la ricerca dei bartender – Vincenzo Monda, Francesco Manna e Vincenzo Pagliara che ce la racconta – indaga, indugia e si sviluppa sui sapori. Quello coi capperi riscuote consenso, ma poi arriva il fieno, e ti si apre un mondo: Woodford Reserve Bourbon, fieno, betulla e genziana. Una esperienza contemporanea. Non è il classico e non è lontano da quello, però sposta i sensi altrove, rispetto alla solita direzione. E questo ci disorienta con piacere. Scopriamo qualcosa di nuovo. Si chiama Più sensoriale. “Stamo a Pomigliano”, torna a risuonarci in testa la coscienza di Ciu Ciu. Riflettiamo a lungo su questa esperienza mentre rientriamo a Napoli. 

9 novembre – La zingara ischitana, il profumo di sciuscella

La mattina seguente il meteo non promette bene, sbarchiamo a Ischia, con pochi turisti, in direzione del porto, riva nord. Sull’isola, alla domanda sul dove incontrarsi, la risposta è sempre univoca: “abbasc’o puort!”. Il porto è un po’ un simbolo, forse unico, della modernizzazione della città offerta dalla dominazione dei Borbone. Altri contributi magari sono andati falliti, questo no. Questo ha lasciato in eredità i valori di una città aperta e predisposta all’accoglienza. Oggi quel DNA appartiene anche a Porto 51 e al suo Doriano Mancusi che ci attende al locale. Quello che è successo dopo andrebbe raccontato in un capitolo a parte. Comunque: la zingara (il pane raffermo, con i suoi ripieni è ormai tipico dell’isola), la selezione musicale più bella di sempre con Doriano in consolle e gli old fashioned bevuti all’interno, al riparo dal diluvio universale ed è subito salotto-rifugio in cui, alzate le vele al vento, sono volati pensieri in libertà e drink americani, ma ischitani nell’anima che hanno attinto all’universo dell’isola. L’old fashioned che sa di ‘sciuscella’ (carruba) è poesia del territorio. La ricetta di Sciù Fash è: Woodford Reserve Bourbon, sciuscella, Bitter 51, gum syrup. Mettere insieme Woodford e sciuscella fa un po’ turista americano in un film con Audrey Hepburn. Porto 51 in effetti si presenta con la carta di identità di locale cosmopolita, uno di quei bar in cui ti aspetti che entri il Gregory Peck di turno dallo yacht ormeggiato vicino o un Truman Capote che qui si trasferì sul serio negli anni ’50. ‘A sciuscella’ è l’impronta local su un cocktail internazionale. 

14 novembre – A godercela tra giovani pescaresi, come nella Belle Èpoque

La solita auto ci attende per condurci a Pescara. Città fresca, giovane, con propensione innata alla modernità. Qui, nel 1924, rombavano i motori della Coppa Acerbo della F1; due anni dopo sempre qui si ammirò il primo volo dell’elicottero e già nel 1910 fu proposto uno dei primi voli aerei. I pescaresi che pure hanno radici antiche, dimostrano una particolare attrazione per le cose audaci e d’avanguardia. Il Quebracho Steakhouse & Mixology, il locale che visitiamo, dimostra lo stesso istinto. Ha un concept innovativo, cura la preparazione delle carni, con lo speciale forno Josper. Ci accoglie un’atmosfera da bistrot parigino, ma proseguendo all’interno si scopre il cuore pulsante, la steakhouse. Gli aromi di carne inondano l’aria, pensi subito alle serate di barbecue americano, alle birre, ai whiskey a chiudere ed è subito old fashioned, che qui è abbinato al food: a Pescara o si è esteti o si è signori, certamente non screanzati. Quello con il cordiale al peperone si accosta al piatto con consapevolezza, ma a corromperci è Old Florindo (Woodford Reserve Bourbon, cordiale al limone e vetiver, drop di Peychaud’s Bitter). La fragranza calda e nobile del vetiver insieme al whiskey americano sono una doppietta elegante e innovativa, che fa molto ‘Made in Pescara’. Rappresentativa di una città in continua rielaborazione, che accorda le sue preferenze a eleganza e piacere. Caratteri che si riverberano sul Quebracho, tra la cucina raffinata e il bar guidato da Francesco Novelli, che ti intrattiene al piccolo e ben rifornito bancone, all’uso della Parigi di fine Ottocento. Rientriamo in hotel con sentimenti di fiducia e benessere, dopo un passaggio lungo le vie battute da giovani che riempiono gli spazi da muro a muro e l’aria di ottimismo. La Belle Èpoque è qui. Pescara è e rimane città giovane e godereccia. 

15 novembre – Modernismi romani, in vecchio stile

Dai finestrini abbassati passa l’aria ancora calda del mattino e le immagini di barche al porto. Ci riempiamo di energia, fantasie e luce, soprattutto quella. La notte di riposo su un letto comodo non ha mandato via gli umori e la vivacità dell’esperienza trascorsa. I ricordi della serata sanno ancora di old fashioned virtuosi e di momenti raffinati. A Roma, dove siamo diretti, ci aspetta un mood diverso. Il Drink Kong con la sua miscelazione dall’estetica spartana e pulita, che invero richiede un lavorio di mani e strumenti complessi, ci incuriosisce. Alletta il confronto con un super classico della miscelazione rivisto da un bar moderno che sa giocare con le materie prime. È il buon Livio Morena che ci accoglie e ci spiega il senso delle cose: con sua maestà l’Old Fashioned gli eccessi non devono essere un diletto. Le acque non vanno sporcate troppo. Basta poco per esaltare questo whiskey. Woodford si presta al gioco dei bartender, ma va saputo abbordare e amministrare. Altrimenti, l’effetto è quello di un restauro dannoso di un patrimonio storico. Invece qui sanno come prendere il giusto provvedimento, improntato all’equilibrio, coerente coi principi di stabilità, come suonerebbe in gergo romano-politichese. In parole povere, questi old fashioned capitolini hanno tutti i tasselli al proprio posto, funzionano perché sfruttano il giusto senso della misura e rispetto a quello con Montenegro, orzata e caffè, sia pure bilanciato, sul taccuino di viaggio segniamo la ricetta di In the Woodford Love (Woodford Reserve Bourbon, cognac, rabarbaro, zucchero, Angostura Bitter), perché piace quella sottotraccia morbida data dal cognac, quanto basta per offrire una costante e lenta evoluzione della struttura originale, in stile Kong.

16 novembre – Stelle, cupole: grande bellezza

Gli old fashioned più ‘alti’ della Capitale, gli unici anche altostellati in questa esperienza di viaggio, sono quelli di Monica Noni, che prima ci stende con una vista su Roma a 360 gradi – da dove il ‘tetto’ di San Pietro è più cupolone che mai, tanto è vicino che sembra di poterlo afferrare con le mani – e poi ci sublima con i drink davvero perfettamente eseguiti e bilanciati. Il classico è un esempio di scuola, perfetto. Gli altri si sottraggono alla tradizione con zuccheri, spezie e bitter. Profumo d’autunno lo sentiamo molto nostro, sarà per la temperatura anomala sul rooftop di Les Etoiles, dell’Atlante Star Hotel, quella di un autunno che non prelude alla stagione fredda, sarà perché per motivi misteriosi si accosta meglio ai nostri pensieri, ispirati magari dalla bellezza di una Roma mite. La ricetta: Woodford Reserve Bourbon, zucchero aromatizzato al pompelmo bianco, fiori d’arancio e pere, bitter home made alle spezie autunnali. Per un new classic servono pochi ritocchi, il resto è grande bellezza che qui hai a iosa. L’old fashioned ha la sua versatilità. Puoi berlo in un cocktail bar al piano terra della Fifth Avenue, su un grattacielo, sui tetti del Marina Bay Sands di Singapore, ma anche in un vicolo del centro storico di Acquapendente. Grati di chiudere il primo step qui, un po’ di coccole sotto le stelle serviranno per riprendere smalto. Il tour è ancora lungo. Abbiamo percorso appena 773 km, 1/6 del totale. Il diario di viaggio ci ricorda: Firenze, Milano, Torino, Genova, alias Rasputin, Locale, Ceresio, Niks, Rita, Dash, Gradisca.

(Continua)

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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