Drink Kong: narrazione di un successo

Le chiavi del destino di un bar minimalista, ma ricco di narrativa, capace di conoscere i bisogni umani, attingendo a un patrimonio condiviso di idee e ricordi, con una trama da romanzo post moderno italiano dal sapore degli anni 80: uno strappo di modernità e una sfida alla nostalgia

 

Premessa

L’inizio della storia. Un cliente entra. Osserva. Ordina. Beve – Ogni cliente, compiendo gli step nell’ordine in cui sono indicati nella frase precedente, aziona un preciso meccanismo, in base al quale la mente analizza questioni via via sempre più complesse. La domanda con cui chiudiamo questo percorso mentale di solito è: mi piace? E perché o no? Si tratta di questioni in realtà complesse che andremo a indagare. Vedremo come il “mi piace” relativo al cocktail non dipende soltanto dall’esperienza sensibile, da ciò che percepiamo, anzi, è in realtà l’ultimo tassello di un percorso che discende dalla capacità del bar di essere persuasivo, convincendoci delle sue ragioni anche a priori, prescindendo dall’esperienza di gustare il cocktail. Quali sono gli strumenti messi in atto per un simile atto di forza? Perché piace il Drink Kong che si è saputo imporre all’attenzione della critica e del pubblico, in pochi mesi dall’apertura, entrando in una classifica ambita come quella dei World’s Best Bars 2019 al n.82, per scalarla fino al n.45 nel 2020?

Il moderno Drink Kong sorge nel cuore antico di Roma, sul colle Esquilino. In una zona che nel corso del tempo è stata riorganizzata da diversi piani regolatori e che ancor prima di essi aveva subito numerosi interventi che ne hanno stravolto l’architettura, causando, ad esempio, l’isolamento della torre medioevale “dei Capocci”, che dall’alto dei suoi 36 metri monitora l’entrata del locale sulla piazza di San Martino ai Monti. Oggi –  noblesse oblige – il bar sembra perpetuare il corso di quei mutamenti di forme, offrendo un viaggio tra simboli e la voglia di continuare a scoprire tracce del passato. E va bene così. Perché non esistono cocktail meravigliosi, ma solo bevande miscelate che devono essere servite. E che siano buone o meno, sarà una serie di fattori a determinarlo. Tra questi, il meno considerato è proprio l’architettura del bar, capace di incidere sulla qualità percepita, finanche ad amplificarla. Si tratta di un concetto relativamente nuovo, poco indagato, in cui l’architettura diviene uno strumento di marketing urbano che fornisce nuove cognizioni all’avventore che si aggira al suo interno. Gli stimoli visivi rimandano ad altro rispetto alla dimensione del presente, pescando in un comune sentire. E’ un’operazione complessa che implica una conoscenza dei bisogni umani che sa attingere al patrimonio condiviso delle idee e dei ricordi. In questo senso Drink Kong è come una pianta moderna che sorge da radici antiche.

 

Parte 1. Rispecchiare i bisogni

Drink Kong

Drink Kong

 In principio erano gli anni 80 o la metamiscelazione – Le architetture del locale rimandano ad altri scenari entrati nell’immaginario collettivo. Le scritte al neon. I videogiochi arcade. La stanza segreta giapponese. E’ un bar che shakera altri bar. Mescola sogni, ricordi, trame, mode, specie quelle degli anni ‘80 e le sue atmosfere underground. Oggetti che citano altri oggetti, il bar che riflette su se stesso, una matrioska dal rimando iconografico continuo. Entri e ti sembra di udire il suono di un sinth, lo cerchi, poi leggi “Drink Kong” al neon. Al neon… Cammini, scorgi iscrizioni, immerso in un’ombra-luce, rispecchio della condizione umana. La sensazione è di spostarsi nel tempo, perdendosi in una storia infinita. Il palco nella sala musica, multifunzionale – anche l’open space è un must anni ‘80 – è perfetto per proiettare Blade Runner. La scena in cui Rick Deckard si reca al noodle bar potrebbe essere stata girata lì, mentre la luce della “K” sfarfalla, proprio come sul display nel coin-op della saletta vicina. Qui capisci che dopo aver percorso un tratto della tua esistenza, ci sono luoghi che ti eri appuntato nella memoria, che a un certo punto ritornano e ti inducono a scegliere, sempre che non siano loro ad aver scelto te. Ad ogni modo, l’incontro è un punto di svolta che rimette in fila priorità e orizzonti. E’ probabilmente questo, il parziale segreto del successo del Kong, che tuttavia vince prescindendo dai fenomeni generazionali.

A proposito di videogame (gli arcade vivono il periodo d’oro negli anni Ottanta), ai più giovani, seppur privi di una memoria storica legata a quel periodo, questo bar potrebbe ricordare un locale di Miami di Grand Theft Auto. Il capitolo uscito nel 2002, Vice City, è un omaggio continuo – neppure a farlo apposta – alle icone degli ‘80. E se Michael Knight fosse reale, oggi, avrebbe la Pontiac Firebird Trans Am dell’82 fuori ad attenderlo: “Kitt, portami a casa”.

Sono segnali di forte discontinuità con la scena attuale Nel mercato italiano si è palesata una novità. Il suo postmodernismo marca l’affrancamento dagli schemi, propende per un rimescolamento delle carte, attingendo dai registri cinematografici, musicali, ludici, guidato dall’esigenza di prendere in mano risorse che si erano affermate oltre la seconda metà del Novecento. Drink Kong riassume tutto questo, richiamando l’attenzione internazionale su se stesso e sul bar italiano, da tempo intrappolato tra le ragnatele del provincialismo, in alcuni casi limitato da un eccessivo elitarismo troppo avanguardista, quando non intontito dal fascino dell’effimero. Il grido silenzioso del pubblico era, è: basta coi locali da martiniani dall’eleganza demodè, basta con le bretelle, le finte atmosfere del Proibizionismo con la puzza di muffa e l’odore stantio e con i soliti twist on classic. Persino il Tiki è scaduto prima ancora di ridiventare mainstream. E basta con il concetto di street-bar, soprattutto perché basta ‘concetti’. Per riunire tutti, dalla generazione x alla z, servono realtà in grado di mettere in mostra altri richiami allettanti, abbastanza lontani nel tempo per sentirne la mancanza e vicini il giusto per ricordarseli, o perché qualcuno possa dire di averli vissuti. Per cui, niente più libri da nerd, masterclass noiose, corsi costosi che ci spieghino il com’era. La sfida è il recupero della memoria, agganciandola alla realtà. Nessuno vuole riesumare cadaveri putrefatti. Non servono esperti per riletture del passato in chiave moderna, di fronte a scelte più semplici, che mirano a un’azione di scrostamento del superfluo, fino alla nuda conoscenza. E’ il minimalismo – liquido e architettonico – del nuovo locale di Patrick Pistolesi a muovere i primi passi in questa direzione. La sua transmedialità spinge alla progressione di una diversa tensione etica che pone il suo bar in una posizione differente rispetto ai precedenti lavori. Drink Kong è un’opera sulle forme del mito e della verità, ma anche una critica decostruttivista al classico-moderno. Sono queste caratteristiche ad aggiungere una nuova identità al “prodotto”.

L’essere Kong (“Be Kong”) è, forse, il senso di appartenenza che vi rimarrà, dopo aver compiuto questa esperienza.

Red Kong

Red Kong

Il minimalismo è protagonista. Da quello architettonico con le sue linee geometriche e pulite, a quello liquido: sono asciutti anche i drink, nelle garnish assenti e nei colori presenti in una gamma disadorna, come quelli delle luci al neon. E il minimalismo piace. Piace perché nel presente in cui viviamo, le agende sono piene di impegni, che il più delle volte salteranno, che proviamo a risolvere col pensiero veloce, col multitasking e in tutto questo perdiamo di vista un fatto: il futuro non ha un tempo infinito. Motivo in più per apprezzare la rimozione del superfluo. La perfezione, come diceva de Saint-Exupéry, si ottiene “quando non c’è più nulla da togliere” e tutto e tutti al Kong sono dediti all’essenziale. A partire, appunto, dall’architettura minimal, che – tanto per rimanere negli 80’s – destruttura le forme tradizionali. In parallelo, il bar team si muove di concerto. Compie l’indispensabile, in modo sobrio. Certe eccentricità (di carattere) che siamo stati abituati a vedere, specie in un Pistolesi più giovane, ora hanno lasciato il posto a uno stile sostanziale. Non ci sono sovraccarichi, nulla è fuori posto e tutto è prioritario. Visi e divisa schietti. Ogni cosa, liberata dalle sovrastrutture, è quel che è. Istintuale. Una linea, una geometria, un colore, un gusto puliti. Non c’è tempo per gli arzigogoli, per i ragionamenti astrusi. Il Drink Kong è quello che vedi, quello che assaggi. Si tratta di una efficace operazione di pulizia da tutti gli orpelli del passato. Il cocktail volutamente si discosta dalla tradizione. C’è del decostruzionismo anche nella miscelazione. Il classico è scomposto e ricomposto (destrutturato) in nuove trame grazie al sapiente utilizzo delle tecnologie (su questo torneremo più avanti). E il cliente? Il cliente si sente alleggerito dalla zavorra della sua quotidianità. Vive la sua narrazione.

 

Drink Kong è un paradigma culturale – Ma perché gli anni ‘80? Perché oggi viviamo in una epoca complessa, problematica e c’è voglia di rifugiarsi in una zona no stress, che il decennio dei mitici Eighties, meno pretenzioso, in cui avevamo imparato quanto fosse più semplice evadere, può regalarci. Strangers Things docet.

I rimandi concettuali che il Drink Kong compie nei confronti di quel periodo sono generosi. Nella New York degli anni 80, in un momento artisticamente prolifico, Jeff Koons disse: “A me interessa raggiungere un pubblico generico riuscendo al tempo stesso a mantenere l’opera a livelli alti. Chiunque può arrivare alle mie opere provenendo da un livello medio di cultura”. Col dovuto distinguo e rispetto, potrebbero essere parole tirate fuori dal genio di Patrick Pistolesi.

Impossibile non citare il brano Just Like Honey di Jesus and Mary Chain (in Psychocandy, 1985), un pezzo davvero minimale, raffinato, che rompe col passato, in cui accade un fatto nuovo: il titolo viene ripetuto 17 volte. In una durata di poco meno di tre minuti, quella reiterazione in ambiente punk creava un argine nei confronti delle esperienze precedenti, presentando intuizioni nuove, che costituiranno la base per nuovi stili, in cui si mescoleranno pop e ambient.

 

Parte 2. Narrare e farsi narrare

Il meccanismo del piace/non piace – A questo punto siamo forse in grado di capire il segreto del successo di questo locale. Partiamo dall’assunto, che bisogna accettare: l’organo del gusto non è la lingua, non è il palato, che rimandano a un’esperienza soggettiva, non universale e quindi poco condivisibile. Tutto nasce nell’organo del cervello, dove si formano i criteri di valutazione che variano nello spazio e nel tempo. Questo significa che oggi possiamo interpretare il bar in un modo, tra qualche anno lo faremo, forse, diversamente. In base ai criteri soggettivi potremo dire se quel dato drink ci è sembrato aspro o dolce, per esempio. Gli strumenti per farlo saranno, appunto, la lingua, il palato, ma una valutazione il più possibile oggettiva passa per il tramite della memoria collettiva, che è patrimonio culturale della società in un dato momento storico, ovvero in un dato spazio e tempo. Entriamo, osserviamo, ordiniamo, beviamo, si diceva. Nel compiere quegli atti, da un lato lasciamo parlare la ‘pancia’, dall’altro il cervello scandaglia il patrimonio comune, frutto di esperienze di anni, a volte di secoli, da cui attinge le informazioni condivise: le idee passate in giudicato, ormai accettate dai più, con cui formuleremo un pensiero critico più oggettivo.

La capacità del Drink Kong è quella di non farsi giudicare dal palato, ma di trasmettere una serie di messaggi che oltrepassano la ricetta nel bicchiere, che fanno leva su questioni in cui ognuno, inconsciamente o meno, si riconosce. Non siamo più nel ristretto ambito delle opinioni su singoli prodotti, ma in quello dei giudizi che si basano su scale valoriali ampie, riconoscibili. Si tratta di una chiave di successo fondamentale, che posseggono anche altri bar di rilievo. Farsi piacere al di là di quello che dicono i recettori in bocca. Da lì il passaparola per il successo di un locale, che narra e può essere narrato a sua volta. In questo senso Drink Kong è avviato a diventare parte di una identità culturale, riconosciuta e condivisa. Un giorno lontano, per chi c’era nel 2020, magari verrà ricordato come qualcosa che ci è appartenuto, che ci ha identificati come drink kongers, forse costituirà una base di ispirazione per future generazioni. Potrebbe. Ora non ci è dato saperlo.

Il cocktail tra filosofia e plot orizzontale – Fin qui abbiamo visto come la narrazione all’interno del bar segua un plot verticale che ricomprende l’intera esperienza da quando entriamo a quando usciamo. E’ la storia di una sera, ripetibile ogni volta da ciascuno. All’interno di questa trama esiste, poi, uno sviluppo orizzontale. Il cocktail segue quella evoluzione temporale, più lenta. Il lavoro di preparazione della drink list presuppone un prima, rispetto a un dopo. Chi conosce le puntate precedenti della vita di Pistolesi potrà comprendere. Lui e la sua squadra sono giunti a un nuovo punto di arrivo/partenza figlio delle esperienze passate. Nel caso dell’ultimo menu, colpisce l’assenza dell’indicazione degli ingredienti. Si dirà che anche qui si deve vedere l’impronta minimal. Può darsi. Una riflessione più approfondita sulle dinamiche del gusto svela, però, altre letture.

Per secoli l’umanità ha ritenuto di mescolare i sapori evitando di farli percepire in modo distinto. E’ solo dal XVIII secolo che siamo divenuti analitici, analizziamo il gusto scindendo quello che sentiamo (l’amaro, il dolce, il salato, il piccante, ecc.). Prima si ricercava un unico gusto, equilibrato, nessuno badava ai singoli componenti, si apprezzava il composto nella sua unicità. Da questo punto di vista, l’equilibrio perfetto, omogeneo, dei nuovi cocktail del Drink Kong strizza l’occhio al modus operandi pre-moderno. Anche per questo è difficile analizzare la ricetta, che non c’è, nel senso che non si vede, non si legge se non all’ultima pagina del menu.

Inoltre, l’assaggio di un drink senza ricetta, costringe a basarci su ciò che quel drink è, su ciò che sentiamo, non su quello che non leggiamo, non su quello che non è. Potrebbe sembrare un esercizio di stile, un divertimento da nerd-bartender, un rebus del gusto. Invece è filosofia allo stato puro. Quella dell’Essere è e del non essere non è di Parmenide, il quale sosteneva che per giungere alla verità si dovesse seguire il pensiero, non i sensi. E tutto torna. Il filosofo di Elea non partiva da constatazioni empiriche, dai sensi, per formulare le conclusioni, quando indagava sulle cose. Anzi, a volte arrivava a conclusioni in netto contrasto rispetto ai sensi stessi. E’ la lezione che passa sul banco del Kong. La domanda corretta da porsi, allora, bevendo, non è da dove ha avuto origine il tutto (cosa c’è dentro? Come ha ottenuto quel risultato?) ma che cos’è il tutto. “Esso avrà per nome tutte le cose, quante i mortali proposero, confidanti che fossero vere, che nascessero e perissero, che fossero e non [fossero], che cambiassero luogo e mutassero luminoso colore”, diceva Parmenide-Pistolesi. Facendo un esempio abbastanza terra-terra, il cocktail senza ricetta è. Lo vediamo, lo assaggiamo, ma se proviamo a giudicarlo immaginando cosa ci sia dentro, allora non è, non ne possiamo parlare e, anzi, se lo facessimo, finiremmo solo per dire opinioni.

Dunque, ricapitolando, le trame narrative sono due: quella verticale gioca con la materia, con le forme, è quella del minimalismo-decostruttivismo, è la nostra esperienza mentre ‘facciamo cose, vediamo gente’. Quella orizzontale  si ricollega al bere e alla creazione del cocktail e tira in ballo niente meno che l’essere parmenideo e le radici del pensiero filosofico occidentale. Se a qualcuno sembrerà esagerato, in verità non c’è da meravigliarsi: un bar non potrà mai essere solo un luogo per mescere bevande che piacciono o meno. Rimane pur sempre una espressione culturale che si sviluppa all’interno di una civiltà in un dato momento storico e che fa riferimento a precise categorie accettate da quella civiltà di appartenenza. Alcune categorie utilizzate oggi possono risalire, come abbiamo appena visto, al momento in cui sono state espresse per la prima volta, dal pensiero greco che ancora ci permea, ben prima degli anni ‘80.

Avvicinandoci a tirare le fila di questo lungo discorso, rimane ancora un’altra questione da esaminare. Si tratta delle modalità con cui si diffonde il messaggio e lo si rende decifrabile.

Il team del Drink Kong

Il team del Drink Kong

Le giuste regole della comunicazione – Quando un bar è ricco di sfaccettature, la comunicazione diventa cruciale. Una delle regole qui rispettate è la seguente: conta meno il messaggio trasmesso con le parole, il “che cosa” si dice, rispetto al “come” che fa riferimento al contenuto non verbale. I (di)segni del Drink Kong sono preponderanti, hanno creato il mood voluto prima ancora che si aprissero le porte del regno. In seguito sono state stabilite solide pubbliche relazioni secondo gli strumenti tipici, i ‘PENCILS’:

Pubblicazioni, inteso come tutto il materiale video e testuale (cartaceo e elettronico) usato a scopo illustrativo o informativo;

Eventi e manifestazioni organizzate al suo interno o alle quali ha preso parte;

News, predisposte dall’ufficio stampa;

Community o comunità locale da cui si è fatto riconoscere e consacrare;

Identità, ha creato un marchio che lo contraddistingue negli accessori, nell’abbigliamento;

Lobbyng, attività di intercettazione di un sistema di decisori davanti ai quali sostenere le proprie istanze, a vantaggio dell’azienda;

Social Activity, è l’impegno nel sociale, su temi quali l’ambiente (ad esempio il non utilizzo di cannucce di plastica e la riduzione al minimo degli sprechi).

 

Tutto questo è avvenuto e avviene in autonomia rispetto alla figura di Patrick Pistolesi, il quale, sebbene all’inizio abbia giustamente utilizzato la notorietà del suo nome come cavallo di Troia per penetrare nel Sistema, oggi lascia che lo “Scimmione” viva di vita propria, rappresentando uno strappo di modernità e una sfida alla nostalgia. Operazione riuscita con efficacia, che gli ha consentito di imprimere una immagine di forte persuasione all’interno dello scacchiere internazionale dei bar che contano, a vantaggio proprio, ma anche della bar industry italiana.

Da un punto di vista antropologico, la presenza di un bar di queste fattezze è un segno di apertura alla modernità, in un territorio dove per quanto ci si sforzi di aprirsi al nuovo si rimane sempre legati alla tradizione. Tra tutti i Paesi industrializzati l’Italia è quello in cui sentiamo di più il bisogno di vivere una dimensione territoriale e stagionale del cibo e delle bevande, che a volte può essere moda anche se non sarebbe corretto liquidare così la questione. Drink Kong però va oltre, non contro, la tradizione. Rappresenta una nuova matrice: quali e quanti prodotti saprà generare, lo vedremo in futuro.

Il perché piaccia, alla fine, è un segreto di Pulcinella. Piace perché offre uno spazio di comfort in cui socializzare come non accadeva da tempo. Esiste una parola per spiegarlo, che riassume l’esperienza del cliente: mamihlapinatapai. Nel linguaggio della Terra del Fuoco pare significhi: “guardarsi a vicenda negli occhi, sperando che l’altro prenda l’iniziativa per fare ciò che entrambi desiderano ma che nessuno dei due vuol fare per primo”. Già, qualcuno, a questo punto, potrebbe aver avuto un déjà vu di un film del 1984… Ben tornati, anni Ottanta.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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