Diciamolo subito: tutto qui? La finale nazionale della World Class 2015, la gara in cui si decreta “Il miglior barman italiano dell’anno” è sintetizzabile in un “Tutto qui?”. Attenzione, non è un intervento in polemica, che si accoda alle tante voci di professionisti del settore, presenti o meno alla serata conclusiva, che hanno definito “un po’ scarsino” il livello della gara, visti i
partecipanti, o meglio, data l’assenza di alcuni partecipanti. Certamente i ‘nomi’ di peso possono garantire un elevato standard qualitativo, ma non è sempre vero il contrario. Nel senso che la qualità non per forza può essere data da bartender famosi. Chiudiamo qui, con un banale ragionamento di pura logica, una polemica sterile che non ci riguarda. Noi di Blublazer eravamo lì, sul posto. Siamo giunti tardi, tuttavia, giusto il tempo per godere della gara finale e della premiazione, dunque qui non scriveremo di come sono andate le cose. Però ci siamo voluti divertire a raccogliere quelle sfumature ‘minori’ che in manifestazioni importanti come la World Class, sono il corollario che poi può fare la differenza. Intanto la scelta del posto: la Sala delle Armi, di mussoliniana memoria. I più anziani dovrebbero ricordarla come l’ ex aula bunker, ovvero il mega stanzone in cui, negli anni ’80, si tennero i processi contro i terroristi che uccisero Aldo Moro e contro Alì Agca, l’attentatore di Papa Woytila. Un pezzo di cronaca nera del Paese, oggi è stato ripulito da un pezzo di cronaca della miscelazione italiana. Sembrerebbe forse un’ eresia, o comunque un nonsense. “Lo sapevi cos’era questo posto, un tempo?”, chiediamo per curiosità. Alcuni bartender restano sbigottiti, altri sorridono di fronte alla rivelazione. Un commento su tutti: “Beh, in fondo si giudica anche quest’ oggi, il meglio e il peggio”. La musica rimbomba un po’ troppo, lo spazio è enorme e la gente non riesce a riempirlo. La bella dj bionda suona come se non lo notasse. Professionista. Dal capo opposto ai suoi vinile, un bancone bar allestito per l’occasione. Nemmeno qui c’è ressa. Non più di tanto, almeno. Si va di “ginto”, il “Gin Tonic” è come Radio Maria, prende sempre ovunque. Il paragone con la radio non è casuale, per gli afficionados ‘gintonici’ dell’ultima ora, quel long drink sembra una religione. Continuiamo a
chiederci cosa ‘adorassero’ prima. Tra un sorso e una chiacchiera condita dal fumo di sigaretta, tutto si ferma all’improvviso. Siamo giunti al momento in cui i quattro finalisti dovranno esibirsi ancora una volta, l’ultima, per la decretazione del vincitore. Noblesse oblige, salgono sul palco, posizionandosi l’uno al fianco dell’altro, nelle rispettive postazioni. Di fronte hanno i giudici, tra cui il collega giornalista Stefano Nincevich, a rappresentanza della categoria. Smettiamo di bere, il banco è fermo, anche se un bartender un po’ ‘andante’ per i fumi alcolici e sornione ci fa dono del suo ‘shottone’ di vodka. Scatta il ‘toto-nomi’. Sondiamo il terreno e in molti giurano che sarà “Lui, è ovvio”. “Lui chi?”, chiediamo sospettando la risposta. “Lui” è Michele Garofalo, del Jerry Thomas Speackeasy. In virtù della sua ‘nobile’ provenienza lavorativa, è ritenuto il più papabile. “Anche se ha sbagliato in precedenza, chiudendo con ritardo la prova…”. si maligna un po’. Questo atteggiamento è il concentrato di quella cultura del sospetto tipicamente italiana, maliziosetta, per la verità. Un modo di pensare da cui tanti prendono pubblicamente le distanze, ma poi finiscono nel privato sempre per professarlo. In questo siamo un po’ tutti figli illegittimi di Giulio Andreotti che diceva: “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Altro vizio italico è il criticare sempre e comunque. Era una finale, l’emozione alle stelle, e di errori, per carità, ce ne sono stati. In questo forse sta la vera differenza tra le gare di miscelazione e quelle di flair. I ragazzi del flair sono sempre coesi, i ‘miscelatori’ non hanno sempre lo stesso spirito di corpo. Non è una critica, ma registriamo la cosa come un dato di fatto. Ha detto Fabio Bacchi in un suo post su Facebook, il giorno dopo la World Class, che in questo tipo di gare “Ci vuole esperienza e i bravi imparano dalle esperienze precedenti. Così come ha fatto Francesco Cione
che ha senza ombra di dubbio meritato di vincere questa edizione”. Eccolo, dunque il bartender più bravo d’Italia. Come spesso accade, i pronostici basati su voci infondate si sono rivelati fasulli. Meglio così, da un certo punto di vista. Poi, che alcune manifestazioni siano ‘dopate’ e le giurie inidonee… beh, se ne può parlare, anzi, non sarebbe male aprire un bel dibattito serio sulla questione. Intanto auguri a Francesco Cione che – parola sempre del buon Bacchi – “asino era e asino rimane. Questa volta con la tripla AAA. Ça va sans dire!” Tanto per non star lì “A pensar male…” che altrimenti, poi, si fa troppo peccato. E scaglino la prima pietra, però, coloro che non ne hanno. Siamo tutti peccatori, ça va sans dire!