Bar: a volte è solo magia

Tutti abbiamo sentito parlare del maghetto creato da J. K. Rowling. Quel che ha fatto per lei Harry Potter ha il sapore della vera magia. Madre single, in stato depressivo, senza un lavoro e l’ennesimo rifiuto di una casa editrice, oggi la scrittrice possiede 1 milione di dollari. Tutto questo grazie alla bacchetta del mago. E’ reale, dunque, la magia? Fin dove si propaga? E quale significato può assumere l’espressione “la magia del bar”?
Tutto ciò che è umano, è destinato a perire, ma quando l’umanità transita in un bar, cambia prospettiva,

J. K. Rowling

J. K. Rowling

assaporando le gioie della vita. E’ la magia. E’ la percezione o l’illusione di poter esercitare il libero arbitrio, godendo, per il tempo della sosta, di quello che appare il migliore dei mondi possibili. Nel bar siamo, come diceva Pirandello, uno, nessuno e centomila. Ci sono i mattatori da banco e i silenzi davanti al bicchiere. Attenzione ai pifferai magici, a volte inconsapevoli. “Vorremmo 2 caffè e…”, “..a me invece un negroni, grazie”, “anche io un negroni”, “ecco, bene, allora faccia negroni per tutti”.  Assecondiamo il vizio, cediamo alle lusinghe. E’ una forma di potere, quindi di magia. Le frasi scivolano con licenziosità e libertà dalla bocca del barfly. Siamo tutti opinionisti. Ognuno ha a propria ricetta. E a proposito di formule – qui sì che il discorso si fa ancora più magico – piuttosto che magia, è quasi scienza, secondo alcuni arte, quella esercitata dai ‘babbani’ del bartending. Quello che preparano a molti può ricordare una magica pozione.  Cosa faranno mai? Perché lanciano liquidi? Come si ricorderanno le dosi? Come vedranno le quantità versate? Quante domande si pone il cliente-babbano di fronte al mago del bar? Se ipotizzassimo che l’umanità possa aver avuto un’era magica, di cui non c’è traccia nei libri di storia, certamente anche il bartending non sarebbe da meno. Ha attraversato periodi arcaici fatti di Calibogus (rum e birra), Stone-Wall, Stone-Fence (rum e sidro), Bombo (rum, acqua, melassa), Mimbo (rum, acqua, zucchero), Syllabub (vino o sidro con latte/panna, zucchero e aromi). Quest’ultimo era fatto finanche con il latte tirato direttamente dalla mammella della vacca. E’ spiegato nel libro di Elizabeth Raffald del 1769: “Metti una bottiglia di birra forte e una pinta di sidro in una ciotola da punch, grattugia una piccola noce moscata e

Un moderno syllabub

Un moderno syllabub

addolcisci a tuo gusto. Quindi mungi tanto latte dalla mucca fino a quando farà una schiuma forte e la birra apparirà chiara. Lascia riposare per un’ora, quindi inserisci sopra qualche ribes ben lavato e servi in tavola”. Ricette e nomi degni di un mago della saga della Rowling. Anche ben superiori di: Pozione Antilupo, Burrobirra o di Hiccough Sweet (dolci singhiozzini). Forse le uniche ricette potteriane che si potrebbero paragonare a quelle dei primi drink, sono i Pasticcetti svenevoli, Cockroach Clusters (scarafaggi a grappolo), Whisky Incendiario Ogden Stravecchio e il Lobe-Blaster (lo sfrangicervello). Volete mettere la crudezza di Eye Opener, Corpse Reviver o Suffering Bstard? Il buffo è che, come per un libro di magia, anche per il bar bisogna saper recitare l’incantesimo in modo corretto. Un drink non funziona, se non sai nominarlo. Ahi voglia a chiedere un Sauron, in luogo di un Sour. Un John Lemon, curioso incrocio tra il cantante dei Beatles, un Gin Lemon e un John Collins. Fosse vivo, l’attore Jack Lemon pretenderebbe i diritti del nome.
Infine, c’è la toponomastica da bar che, di fatto, ha soppiantato monumenti celebri. E’ più facile fissare un appuntamento specificando che “ci vediamo all’angolo di fronte al bar…”, quando non piuttosto “ti aspetto al banco di…”.  Un forestiero non chiederà mai a qualcuno: “c’è un museo aperto qui vicino?”, ma “un bar”, sì. Per noi italiani, poi, togliete il bar dalla musica e cosa rimane? In un colpo solo perderemmo “Quattro amici al bar” di Gino Paoli, o la possibilità di ritrovarsi “come le star a bere del whiskey al Roxy bar” di Vasco Rossi. Perché, in fondo, quello di cui abbiamo bisogno è, come cantavano gli 883: “Stessa storia, stesso posto, stesso bar”. Il social per eccellenza, non ce ne vogliano Facebook, Instagram & Co. è questo. Anche perché, possiamo digitare i nostri pensieri sulle bacheche elettroniche, per imprimere e condividere i ricordi, però Vinicio Capossela ci ha spiegato bene che “il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar”.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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