Bar e Covid: un martini a mezzogiorno? Cosa cambierà?

E se bevessimo nelle ore diurne? Superare alcune consuetudini potrebbe
aiutare il settore a restare in vita, forse. Oppure è vero che non ci si può reinventare?

C’era una volta “l’ora viola”, ma il virus l’ha portata via. Da quando Mauro Lotti l’ha diffusa, l’espressione è entrata di diritto nel linguaggio del bar più aulico. Potente, evocativa, a tratti poetica. Indica l’ora dell’aperitivo, quando il cielo va a mutare di colore, la notte avanza e gli adulti escono dal recinto per abbeverarsi. Adesso, causa Covid, il colore andrà sostituito. Potrebbe essere il nero, da lutto, vista la tragedia di vite umane coinvolte e di esercizi a rischio chiusura definitiva. Nell’assurdo di un periodo che nessuno si sarebbe atteso di vivere e da cui in tanti pensano di non uscire vivi, proviamo ad abbozzare una

riflessione su alcuni scenari futuri. Lasciando da parte le questioni sanitarie ed economiche, serissime, sia chiaro, ma che appartengono ad un diverso rango di analisi la domanda che dovremmo porci è se questa pandemia ci cambierà o se ci ha già cambiati nelle abitudini sociali. Chiediamoci, piuttosto, che cosa sta mutando. Perché è nei momenti come questo che la storia con la s maiuscola prende altre direzioni. E mentre questo avviene, la cronaca ci affanna con le sue problematiche, lasciando inevasa la risposta. Curva

Mauro Lotti al Gin Corner

Mauro Lotti

dei contagi, tamponi, disperazione sociale, interi settori coinvolti e travolti, gente in strada per contestare. Giusto che le categorie maggiormente colpite manifestino il dissenso contro le decisioni del Governo. Rientra nella dinamica dei giochi alzare la voce se le azioni dei politicanti stridono con gli interessi che fino a ieri davano da mangiare e permettevano di pagare la bolletta del gas. Cos’altro fareste con la prospettiva di non riscuotere lo stipendio? La neonata associazione di International Ospitality Network (IHN), per esempio, sta provando in questi giorni a testare le piazze. Cresce il numero dei suoi accoliti. Il 2 novembre la prima manifestazione nazionale è una dura prova per misurare la maturità di un settore dell’ospitalità, quello del bar, che forse si sta rendendo conto adesso, di quanto sia necessario avere un rappresentante forte sui tavoli dei decisori; che un sindacato o una struttura con funzioni simili, di rappresentanza, varrebbe oro; che va bene sbraitare in piazza, ma, innanzitutto, occorre giungere a una forma più strutturata e mettere nero su bianco alcune proposte concrete, attualizzabili, prima di confrontarsi con il politico di turno. Un consiglio da semplice osservatore esterno che, come l’ambasciatore, non porta pena: è bene essere trasparenti e coinvolgenti oltre misura. Contarsi e chiedersi sempre: chi siamo, cosa vogliamo e soprattutto quale immagine è percepita all’esterno. Meglio spegnere le critiche sul nascere, evitando di apparire “la solita cricca di amici” o “è solo una roba romana” (a secondo che si dia fiato alle trombe nel Lazio o oltre il confine). La crescita dei partecipanti, comunque, negli ultimi giorni, fa sperare per il meglio. E poi, come sempre, adulti non si nasce, si diventa. Detto altrimenti: nessuno nasce imparato. Diamo tempo al tempo.

Torniamo, invece, alle questioni iniziali. Ogni cambiamento epocale, si diceva, porta con sé cambiamenti su altri piani. Innanzitutto è cambiata la percezione di sé, di vedere noi stessi e gli altri. Al centro di questa ihnvisione è la salute e il potere di acquisto. La salubrità fisica e mentale, insieme al portafogli, sono tra gli aspetti ‘infettati’ dalla pandemia. E sono quelli su cui la nostra percezione è cambiata. Nel primo caso, siamo sempre preoccupati per il nostro stato di salute, poi per quello degli altri – da cui può dipendere e mutare anche il nostro – e questo ha cambiato già alcune abitudini, anche di spesa. La mascherina è il risvolto più evidente. Insieme al distanziamento ha già, di fatto, mutato le consuete regole di comportamento sociale nei bar. Le chiacchiere, soprattutto le nuove conoscenze, i rapporti di lavoro, si sono rimodulati. Conoscere e condividere, le due azioni più frequenti, sono chiamate a dura prova, non potendo far riferimento, come prima, a un patrimonio di significati condivisi. Affetti, antipatie, brindisi, passano per un livello di comunicazione differente. Serve un nuovo contratto sociale che ci spieghi i termini dell’interazione. Come ci comportiamo, ad esempio, con chi non la indossa? Vomitandogli addosso rigurgiti di disapprovazione? Covando risentimento? Stigmatizzando la paura con una pacca sulla spalla? Forse la cultura del sospetto si intensificherà. Boccaccio, che aveva vissuto l’esperienza della peste, ci ha descritto l’odio che si era impossessato della gente, mandando alla malora le regole del buon vicinato, ma anche i legami familiari: la peste non risparmiò nessuno, tutti contro tutti. Vicino contro vicino, figli contro genitori, tale era la percezione del pericolo di infettarsi. Questo mantenersi in bilico tra umano e disumano è quello che si spera non accada.
La crescita del malcontento generale ha già fornito la miccia per il lancio di bombe carta. Dunque, che fare? Forse una risposta concreta, immediata, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Paradossalmente, è lo stesso strumento del Dpcm a fornirci la cornice in cui operare per aiutare il settore. Non restando a casa, ma uscendo, frequentando il frequentabile. Per questo serve un cambiamento radicale di abitudini. Una sorta di riediting genetico di un popolo che tramanda gli stessi comportamenti della tavola da secoli. Per questo l’ora viola anche se affossata va sostituita. Anticipata. Non sarà nelle nostre abitudini bere di giorno, ma un aperitivo prima di pranzo, una bevuta pomeridiana, sforzandosi di staccare la spina dall’ufficio – tanto lo smart working aiuta – potrebbe essere conveniente. Facile? No, anzi, il dibattito interno al settore è aperto. Sottolinea Francesco Spenuso sulla sua bacheca Facebook che se il modello di brunch funzionasse, lo avremmo già fatto tutti. “La notte si sceglie. Il mestiere non si inventa”. E’ altrettanto vero che gioco-forza,

Francesco Spenuso

Francesco Spenuso

la chiusura anticipata dei bar ha spostato indietro il consumo di alcolici. Bere prima verrà considerato socialmente più accettabile. Nessuno potrebbe essere tacciato di alcolismo per un martini alle quattro del pomeriggio. E già questo, vada come vada, potrebbe essere un cambio di rotta, se si radicasse come abitudine anche dopo il Covid.

Questo virus ci ha un po’ rincitrulliti. In tanti abbiamo perso il senso della ragione, del resto ci avevano assicurato che non avremmo subito una seconda ondata e invece oltre ad abbassare le saracinesche dei locali, stiamo per rimetterci le catene alle porte di casa. I media non aiutano: le informazioni che circolano sono troppe, causano un cortocircuito e confondono le idee. Logico che, quando è arrivato il suo momento, il mini coprifuoco sia stato accolto con le polemiche e non poteva accadere diversamente. Tutte le critiche, ripetiamolo, sono fondate. Siamo quasi certi, però, che al posto di Conte non vorremmo esserci. I numeri del contagio crescono, l’epidemia, ormai pandemia, è sfuggita di mano e un nuovo totale lockdown è alle porte. I tempi per programmare altro sono stretti. Amen. Ecco perché ci vogliamo aggrappare a un ultimo rigurgito anticovid, ancora possibile. Forse è arrivato il momento di vivere diversamente. O semplicemente di vivere punto. Vivere questa vita in questo istante di tempo, con nuove regole. C’è una frase di Charles Bukowski che capita a proposito, come l’oliva nel martini: “Mi sento male perché sento di non viverle, queste cazzo di giornate. Sento che le faccio passare, che faccio scorrere il tempo senza usarlo, senza prenderlo per il culo e magari farmi quattro risate e basta. Non sto vivendo, io sto solo passando”. Finché il virus e il Governo ci consentiranno di uscire, anche se in maniera ridotta, chiunque abbia una capacità di spesa, può tentare questa ‘mutazione genetica’, inaugurando un nuovo corso. Non ci ha costretto il medico a bere la sera. Il popolo anglosassone lo fa da sempre. Manterremmo in vita un’economia. Nel frattempo, la cronaca continuerà, giustamente, ad occuparsi di morti, disordini, lamentele, provvedimenti. I bar colpiti urleranno la loro protesta. Ognuno deve fare il proprio, ma la vita deve fare il suo corso, non aspettiamo che passi. Molto dipenderà dalla volontà di tutti noi di rimettere in discussione i modelli di comportamento. Basta poco, come un gin tonic a mezzogiorno. Perché no?

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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