Contromano, verso la modernità: Sasha Petraske

Un nome su tutti merita oggi di essere ricordato per aver rinnovato il settore del bar: Sasha Petraske. Con lui (ri)nasce lo speakeasy, il concetto del secret bar. L’apertura sel suo Milk & Honey nel 1999 nel popoloso Lower East Side di New York rappresenta un punto di svolta, dopo nulla è stato come prima. Le regole della casa, il curioso modo di prendere le prenotazioni, lo studio dei cocktail pre-proibizionisti, l’utilizzo del jigger, del cetriolo nella welcome water, il ghiaccio di qualità, tutto ormai conosciuto, ma tutto è partito dal piccolo locale di quel bartender morto troppo giovane, all’età di 42 anni nella sua casa nell’Hudson. Una carriera fulminante, decollata quando decise di cambiare rotta, andando in controtendenza. Senza neppure farsi troppa pubblicità, era riuscito a trovare il suo spazio, piantando il seme che avrebbe partorito la nuova età dell’oro del bar. Secondo alcuni la scelta di Petraske fu dettata per bacchettare un settore che se lo meritava. Le regole del Milk & Honey avevano un profondo significato educativo, non erano lì per un gioco divertente.

sasha petraske

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Volevano insegnare a clienti troppo chiassosi come ci si dovesse comportare. E quelle regole e quello stile lo replicò altrove, aprendo nuovi locali, non solo negli Stati Uniti. Come l’Everleigh a Melbourne, in Australia o una versione londinese del Milk & Honey con l’imprenditore Jonathan Downey. Non fu mai, però, lui stesso un businessman, o perlomeno si considerava un povero uomo d’affari. Sempre attento alla classe lavoratrice, nel rispetto dell’educazione comunista impartitagli dai genitori e dai nonni. “Ho abbandonato presto l’idea del comunismo”, dichiarò in un’intervista, “ma gli ideali di giustizia sociale sono rimasti con me”.
In effetti non aveva un grande senso degli affari. Dopo il successo del Milk & Honey, poi divenuto Attaboy con nuovi proprietari, Petraske provò a bissare in un nuovo stabile, che fu però venduto e avviato alla demolizione. Nonostante qualche battuta d’arresto, però, voleva aprire una nuova versione della sua creazione, o addirittura aprire un nuovo locale a Brooklyn, il Falconer.

Quando trovò l’annuncio per uno scantinato a 800 dollari al mese, non ci pensò due volte. Finalmente poteva realizzare il sogno della sua vita, avere un locale tutto suo, molto vecchio stile. Promise al proprietario che non avrebbe creato problemi, che il bar avrebbe avuto un profilo basso.  Si ispirava alle atmosfere dell’Angels Share dell’East Village che apprezzava tanto. Nacque così il Milk & Honey. Dopo i primi tempi arrivarono i soldi in prestito degli amici. Anche quello

la cura per il ghiaccio migliore

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un segnale della scarsa imprenditorialità. Però, come sempre accade in questi casi, a un uomo dotato di una precisa visione non si possono chiedere altri pregi. Il suo, fu sicuramente quello di aver reinventato il bar. E alle critiche secondo cui aveva dato vita a una generazione di baristi troppo pretenziosi, rispose semplicemente che il bar per quanto possa raccogliere pezzi di antiquariato, è solo un bar. E il cocktail è da provare. Non c’è da discutere.

La sua eredità è pesante, insieme alla sua filosofia, ha dettato la strada per nuovi bartender – uno su tutti è Sam Ross dell’Attaboy –  ma soprattutto un insegnamento: arriva sempre un momento in cui bisogna prendere la strada contromano per rinnovare e rimettere tutto in gioco. Era il 31 dicembre del 1999 quando aprì il Milk & Honey. I bevitori del nuovo millennio stavano per scoprire un nuovo mondo e i baristi avrebbero ricevuto in cambio una nuova dignità.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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