Dalle piume di gallo alle piume di struzzo. Giulio Einaudi

Quando l’America andava liberandosi dal peso del Proibizionismo, in Italia nasceva la casa editrice Einaudi. Undici anni dopo, il suo direttore editoriale, Leone Ginzburg, venne torturato e ucciso. Undici anni sotto l’oppressore. Pare una nemesi. Undici fanno quasi il paio con i tredici di proibizione al di là dell’Atlantico.  Con una differenza: gli yankee si sbronzavano, esercitando una forma distorta di libertà nascondendosi in spazi privati. A Roma nel 1944 la risposta di Giulio Einaudi non fu quella di rintanarsi

Giulio Einuadi

Giulio Einuadi

in qualche scantinato, segreto come uno speakeasy di New  York. Piuttosto si espanse alla luce del sole, con altre sedi. Dopo Roma anche Milano e Torino. I suoi libri sono marchiati da uno struzzo che non nasconde la testa sotto la sabbia. Un vago richiamo alle piume colorate della ‘coda di gallo’ o cocktail che dir si voglia.

L’editore divenne presto un punto di riferimento per autori classici stranieri. Lo animava l’intento di di lanciare le menti più brillanti sia in Italia che in Europa. Con la diffusione dei suoi libri contribuì a far crescere e amalgamare il multiculturalismo.

Sia pure con pesi e misure differenti, nell’impresa di questa storia riecheggiano elementi del bar. I grandi

Lo "struzzo" di Einaudi

Lo “struzzo” di Einaudi

classici americani, alla stregua di altri grandi classici – liquidi – come un “Martini” o un “Manhattan”, furono spesso ‘rimpaginati’ – o twistati – da Einaudi e riadattati per il nuovo pubblico. Lo struzzo in Italia, così come il ‘gallo’ in America, furono messi a dura prova. Sopravvissero, ognuno con le sue novelle, ambasciatori della propria cultura oltre i confini di dogana. Morale della favola? Un libro può raccontare tante storie, quante un bar può farle vivere.

Nome: Giulio Einaudi
periodo storico di riferimento: Italia, seconda guerra
professione: editore
segni particolari: twist on classic del libro

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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