In occasione della presentazione del nuovo “Martini Riserva Speciale Bitter” abbiamo avuto l’occasione di scambiare due battute con Marcello Trentini, chef stellato del Magorabin di Torino, per cercare di approfondire i punti d’incontro e le differenze di due mondi, quello del bar e quello della cucina, sempre
più vicini.
Cosa ne pensa dell’abbinamento tra cocktail e cibo, di cui lei è in qualche modo un fautore?
“Il discorso dell’abbinamento cocktail con la cucina fine dining, come nel mio caso, ha radici molto lontane. Io sono uno di quelli che ci ha creduto, non da ora, ma da 15 anni. Nel mio caso il connubio funziona bene. L’importante è trovare il giusto modo. Non si deve anestetizzare il cliente col troppo alcol, per esempio. Ci vuol la giusta misura. Col vermut – visto che oggi siamo qui per questo – il discorso è nato da quando abbiamo aperto. 15 anni fa era utilizzato per lo più in discoteca. Viveva il suo periodo meno fortunato. Bere un calice di vermut con ghiaccio e scorza di limone dentro a un ristorante era ormai passato di moda. Invece noi già allora lo usavamo. ‘Torinesità’ all’ennesima potenza, si potrebbe dire. Mi piaceva ripristinare quello che era un aperitivo storico. Oggi è tornato in gran voga, per fortuna”.
Trova delle assonanze tra il mestiere dello chef e quello del barman?
“Eccome, soprattutto oggi. Il mestiere del cuoco è definitivamente cambiato. Nel bene o nel male. Come è cambiato quello del barman. Anche loro come noi oggi vanno in TV. Sono usciti dal bancone fumoso dello speakeasy o d’orato e poco raggiungibile degli hotel lussuosi. C’è una globalizzazione positiva di quella che è la cultura della informazione. Altra somiglianza: io faccio nel mio ristorante una cucina che è ‘mia’, è autoriale. Esattamente come i barmen che creano o rivisitano una ricetta di un cocktail. E quando creiamo una nostra ricetta, significa che dietro c’è del pensiero, dunque stiamo facendo cultura. Portiamo qualcosa che prima non c’era e adesso c’è”.
C’è una somiglianza tra la vostre clientele?
Sì. A Torino c’è un famoso speakeasy, dove vado a bere. E il 75% dei clienti che trovo, quando entro, sono i miei. Del resto chi affronta una cucina fine dining ha un livello socio culturale, un interesse, una curiosità elevati, che vanno di pari passo con la voglia di spendere qualcosa in più per un drink fatto molto bene, in un determinato ambiente”.