Matusalem Rum “Gran Reserva” 23 años

Ho scelto un rum come oggetto della mia recensione di “esordio” in questo campo perché, fra i distillati che più gradisco, è forse quello alla cui selezione bisogna prestare maggior attenzione – dacché il mercato è invaso da orde di disgorganti colorati d’arancio e spacciati per rum –, ma che al medesimo tempo, se ci si approccia all’assaggio con la consapevolezza di ciò che si sta per bere, può regalare alcune fra le migliori esperienze “bacchiche” concepibili per il palato umano. Ed ho scelto proprio questo rum per diverse ragioni: su tutte, è ovvio, per il gusto soggettivo; in secondo luogo, poiché ritengo abbia molteplici caratteristiche oggettivamente pregevoli; in ultimo perché, prendendone ad indici la qualità (di cui si approfondirà a breve), il prezzo (che Solera barrelrasenta l’economico, sebbene i tempi di ristrettezze che viviamo raccomandano la massima prudenza nell’uso di tale termine) e la disponibilità nel nostro Paese (per intendersi, non ci si deve ammattire a scovarlo su siti di eCommerce armeni con sottotitoli in azero-cirillico), può essere veramente – ed, a parere di chi scrive, è – un prodotto molto più che interessante nel panorama dei rum latinoamericani. Ultimo ma non ultimo criterio di discrezione per questa mia scelta risiede nel fatto che, sebbene venga etichettato come – e lo è a tutti gli effetti – premium rum (ossia “da degustazione”, qualunque cosa significhi), il Matusalem “Gran Reserva” 23 años è un blend di rum ottenuto con metodo solera. Un metodo peculiarmente spagnolo – e tipico dell’affinamento di sherry e brandy – che consiste, brevissimamente, nell’utilizzo di botti (criaderas o soleras, per l’appunto) generalmente di acero o quercia, ordinate su quattro o cinque file sovrapposte e riempite a partire da quelle superiori. Dopo un periodo di tempo variabile da uno ad anche cinque anni, parte del contenuto di queste ultime viene travasato nelle botti che si trovavano al livello inferiore, mentre quelle all’apice vengono riempite con del rum più giovane. Siffatto procedimento viene ripetuto per tanti anni quanti ne servono per l’invecchiamento, al termine del quale il distillato contenuto all’interno dei caratelli alla base, ovvero quello pronto per l’imbottigliamento ed il successivo consumo, si sarà di anno in anno arricchito dei sapori particolari delle diverse annate di cui lo stesso risulterà miscela. L’utilizzo della concessiva, qualche riga più su, si è reso necessario giacché le due specifiche di blend e solera fanno sovente storcere il naso a buona parte dei sedicenti puristi che, se soltanto si accostano a qualcosa di diverso da un single cask – rum i cui maturazione ed affinamento avvengono all’interno di una sola botte, endemici delle ex colonie britanniche (Guyana, Trinidad e Grenada) e francesi (Martinica e Guadalupa) – o da un millesimato – rum ottenuto non miscelando più annate bensì per invecchiamento di un’unica partita –, sembrano cadere vittime della scarlattina.

Ora, prima di lasciare il passo alle note post-degustazione, due parole in croce sulla storia della distilleria: fondata a Cuba da due fratelli spagnoli nella seconda metà dell’Ottocento, e per quasi un secolo produttori di rum tipicamente cubani, a causa dell’altalenante situazione finanziaria nel periodo compreso tra la fine della guerra ispano-americana e la rivoluzione del ’59, l’azienda fu costretta a vendere lo stabilimento di Santiago de Cuba ed a spostare l’attività in Repubblica Dominicana. Dove oggi, è d’uopo specificarlo, la Matusalem non possiede più una propria distilleria ma si appoggia a un impianto esterno. Un cambio di scenario che, tuttavia, non ha mai impedito a questo brand di mantenere l’elevatissima qualità produttiva raggiunta nei propri anni d’oro. L’approdo sul suolo dominicano ha dato forse solo un po’ più di corpo e carattere al tradizionale e pur ottimo rum cubano di media-lunga stagionatura. Ed un’ultima precisazione, a questo riguardo: il numero di anni d’invecchiamento – in barriques di rovere francese – indicato per ognuno dei quattro rum della gamma Matusalem (10, 15, 18 e 23 anni) si riferiscono non alla media delle annate che vi hanno contribuito, né all’annata più risalente, bensì a quella più recente. Sugar cane farming in Dominican Republic


Appena ci si trova davanti all’elegante e pettoruta bottiglia, la prima cosa a cui viene spontaneo far caso, oltre alla raffinata etichetta recante con fierezza l’origine cubana, è il colore del contenuto: l’ambra è, nella scala cromatica, già superata, e fa posto ad un arancio intenso che, nella trasparenza di un bicchiere, si abbronza al calore di un arancione internazionale che ricorda la tinta del Golden Gate Bridge. All’olfatto, nella miglior tradizione del rum caraibico, vaniglia e mandorla tostata sono le prime fragranze ad essere recepite. Poi giunge massiccio un effluvio di miele, ovattato dalle note – marginali ma piacevolissimi – fragranti del rovere che ha ospitato il distillato per un quarto di secolo. Facendo via via tappa tra accenni di fava di cacao e Matusalemrimanenze speziate al pimento – che però si perdono all’assaggio –, si arriva alla stazione del caramello, l’aroma probabilmente più preponderante – e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un rum di melassa; ma un rum molto ben fatto, altrimenti si avvertirebbe il solo alcool! –, smooth (morbido, vellutato) e, per ciò stesso, quello che maggiormente interagisce con la nota alcoolica – non eccessiva (40% vol.) ma più che appagante, almeno a parer mio – e la compenetra, in bouquet assolutamente politematico e divertente, virile ma non nerboruto, e soprattutto niente affatto pungente.

Considerazioni molto simili per la resa al palato, dove il bilanciatissimo substrato alcoolico – il cui volume è ritenuto, dai millantati puristi di cui sopra, troppo basso affinché il distillato possa esprimere al meglio il suo potenziale – dona il proprio corpo ad un caleidoscopio di gusti che spaziano dal tabacco Avana alla frutta tostata, che ritorna anche in questa percezione sensoriale e trasporta la fantasia di chi beve nel laboratorio di un biscottificio, e dalla freschezza agrumata dell’arancia al sentore vagamente affumicato di prugne secche. Commistione organolettica moderata dalla sapienza di un Master Blender che sa il fatto suo, attraverso l’arbitraggio imparziale dell’anzidetto caramello, la cui base neutra – dolce sì ma mai burrosa, come invece accade per il retrogusto al toffee del Matusalem 15 años – è un pentagramma perfetto per una tale armonia di sapori, ravvisabili sia in sinfonia che da solisti. Precisamente come, avendo oramai chiamato in causa il tabacco, un buon Virginia chiaro e di media dolcezza dà il corpo e l’equilibrio necessari per controllare l’esplosione olfattiva degli Orientali e centellinare la pienezza riflessiva del Latakia. Il finale è lungo e persistente in bocca, finanche a mezz’ora dopo la degustazione. Lasso durante il quale la buona densità di questo rum – che, certamente, rientra in una media acquosa se paragonata all’insindacabile “mielosità” delle Loro Maestà Skeldon 1973 e Demerara Port Mourant 1975, trovabili oggi solo con la complicità della fortuna ed a prezzi che strizzano l’occhio ad un salario mensile – permette al palato di continuare ad assaporare quel boccone di pasticceria secca rimastovi attaccato.

Qualcuno ardisce nel paragonare questo Matusalem ad un cognac. L’azienda stessa, a onor del vero, lo definisce “El Cognac de los Rones”. A me personalmente non sorride affatto l’idea di accostare due distillati tanto diversi per origine, gusto e produzione. Nondimeno, su una cosa sono d’accordo con i blender della Matusalem e con Ernest Hemingway, di cui era il rum favorito: che bisognerebbe gustarlo come si gusta un cognac. Come, cioè? Beh… ognuno come gli pare! Che è sempre il modo migliore. Consiglio di un libertario.


sigaro e rumIn conclusione, il Matusalem “Gran Reserva” 23 años non assurgerà forse ai livelli di complessità estatica di taluni cask strength (rum con gradazione alcoolica tipica tra il 55% ed il 65% vol., ma più approssimativamente oltre il 50% vol. come i due capolavori guyanesi testé citati), ma per chi scrive è e resta un ottimo rum. Dall’animo cubano, senz’ombra di dubbio, ma che non manca assolutamente di corpo né di gusto, benché sia un difetto che molti – che non posso e non voglio biasimare, dacché in questo caso un giudizio del genere è dettato unicamente dal gusto personale – gli imputano.
Un rum, e qui chiudo seriamente, che merita un bel 9/10, voto viepiù tondo e rispondente se accompagnato – il rum, non il voto! – da un buon cioccolato fondente Ocumare del Venezuela (minimo 75% di cacao) e da un altrettanto buona fumata: Samuel Gawith Skiff Mixture in pipa a curva classica o “Dublin” e dal fornello medio-ampio, per gli amanti del genere, od un generoso e dolciastro Romeo y Julieta, per i fomentati dall’accoppiata nazionalistica. In entrambi i casi, attenzione: da consumarsi comodamente seduti e con costante lentezza.

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