Cronache disordinate di un bar tour in fuga da Omicron: il bar tra piaceri e dispiaceri della vita, a Firenze e Venezia. PT1

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Nei febbrili giorni che precedevano le festività natalizie, parte della redazione di Blueblazer si spostava su Firenze e Venezia, compiendo un breve bar tour. Alcuni locali ci erano noti, altri del tutto nuovi, la qual cosa un tempo ci avrebbe reso entusiasti. Avremmo apprezzato e goduto l’esperienza, ma oggi la presenza del Covid ci costringe a smorzare i toni. Col trascorrere delle ore l’ombra lunga del contagio si estendeva a macchia d’olio. Sollevavi un bicchiere e ti sentivi in colpa, farò bene, farò male? Respiravi, seduto al tavolo e sospiravi, perché ogni respiro ti instillava il dubbio: prenderemo o no il virus? Ci bevevi sopra e passavi al bar successivo. Il viaggio alla ricerca del buon bere si è in parte trasformato nella fuga per schivare un infingardo coronavirus. Ci sono piaceri della vita che non andrebbero mai consumati di pari passo a taluni rischi, ma in questi tempi pandemici ci siamo abituati. Ecco quel che succede: da un lato c’è quel fenomeno di proteine e acidi nucleici, il Covid, che si replica e muta senza sosta, dall’altro lato gli fa eco un altro fenomeno socio-culturale, la nostra risposta al problema, fatta di idee, interpretazioni, tentativi di razionalizzare e dare un senso alle nostre azioni. Così il racconto alcolico diventa pur sempre una testimonianza di cronaca.

Luca Manni e la bottiglia Martini

Luca Manni e la bottiglia Martini

Firenze, si diceva. Giungiamo stanchi, ma la cura e il decoro della città dei Medici sono sufficienti per resettarci, ci ripuliscono i pensieri e ci predispongono alla serata. Lasciamo i giovani, Federica e Ascanio, a compiere il loro dovere per un evento, mentre con Giampiero ci dileguiamo per vicoli. Abbiamo un appuntamento con la storia. Nel freezer del Paszkowski il buon Luca Manni ci ha lasciato un regalo: una bottiglia di gin per un martini ghiacciato. Vantaggi o svantaggi – dipende da quale punto di vista del fegato si intende vedere la questione – di percorrere km da nord a sud e bere ‘qualche’ martini. La gente del bar lo sa e ci prende gusto a farti star bene. Privilegi che ti ripagano di un anno faticoso. La Firenze natalizia si apre con questo gradito cadeau a -20°C in un bar che è un monumento nazionale.

Peccato la sosta sia breve, non abbiamo il tempo di fare le tappe che vorremmo, fra tutte quella più imprevedibile ‘da Paolino’, dell’Art Bar, per uno dei suoi impeccabili martini, serviti con un trittico di olive verdi, nere e cipolline. Se Hemingway fosse vivo, forse avrebbe trasformato il buon vecchio Paolo nel Cipriani fiorentino.

Matteo Di Ienno

Matteo Di Ienno

Saltiamo la visita. Ci autoconvinciamo che “sarà per la prossima volta” e andiamo avanti col rimpianto che verrà spazzato via all’arrivo al Locale. Ha bellezza da vendere e storia secolare. Raggiungiamo lì i ragazzi. E’ sufficiente superare la soglia di ingresso per sentirsi un fiorentino del ‘500, alla corte di Cosimo I. Beviamo un altro martini e ci dimentichiamo di tutto. Qui dentro ti percepisci in modo relativo, sei un puntino nella storia. Dimentichi di goderti persino il martini. Lo bevi e basta. Scordi anche che il Locale è appena entrato nella classifica dei 50 Best Bar. Del resto è nella classifica della Storia da secoli…

Prima di salutare la città, scendiamo nelle viscere di Rasputin, l’unico bar che ancora può accoglierci nel cuore della notte. Le chiacchiere si sciolgono, complice la penombra e il whisky, la loro pronuncia è ovattata, come è giusto che sia, in un emulo di un secret bar d’altri tempi. Il bello del Rasputin è proprio questo, non tanto e non solo la grande conoscenza sul whisky di Daniele e la sua disponibilità a condividerla, ma è la parola, che qui dentro si scambia volentieri, piano. Lontano da occhi indiscreti, ti senti un po’ carbonaro. E per un attimo dimentichi che siamo pur sempre a rischio contagio. L’indomani ci aspetta la Venice Cocktail Week, la prudenza richiederebbe di muoversi con cautela, ma per il momento ci godiamo l’oscurità e dopo un buon Old Fashioned chiudiamo, se la memoria non inganna, con un bicchierino di scotch. 

 

Venezia sotto la nebbia

Venezia sotto la nebbia

Il mattino seguente ha il sapore della lotta vinta a fatica contro il sonno perso. In treno rimettiamo in ordine i pensieri, in silenzio, ognuno per sé. Il torpore svanisce a Venezia. Fa freddo, molto più di quello cui siamo abituati e la fame ci spinge alla ricerca di cicchetti. La nebbia che qui chiamano caìgo si inspessisce e cancella i confini degli oggetti e delle architetture che incontriamo nel cammino. Una novità che ci affascina, ma non ci distrae dal nostro compito: quali e quanti bar della week visitare? Abbiamo un ‘ingrato’ compito, bere in ciascuno un martini cocktail. Ma come, la pandemia ce la siamo già dimenticata? La nostra risposta al virus si muove secondo alcune categorie morali, che rinforzano la convinzione di essere nel giusto o meno. E’ una convinzione acquisita piuttosto a buon mercato, a seconda di quel che riteniamo buono o no, per noi stessi. Si tratta di andare in giro a bere martini, cosa che normalmente amiamo fare, dunque, la scelta per il momento è fatta: è cosa buona e giusta e con questa convinzione autoassolutoria ci muoviamo per le calli nebbiose. Il caìgo che monta ci palesa una città lagunare che potrebbe ricordare Morte a Venezia. Il capolavoro di Thomas Mann ha giusto un secolo di vita, grande omaggio alla cultura del decadentismo europeo. E ammettiamolo, che un po’ decadenti ci sentiamo anche noi. Siamo qui, provati più di quanto non lo fossimo all’arrivo a Firenze, per un lungo e faticoso, sia pur piacevole, bar tour che ci pone di fronte la doppia sfida: quanti martini riusciremo a bere con giusto contegno e quanti ‘twist’ virali svieremo? Dobbiamo confidare nel potere medicinale del gin o non ci butteremmo nell’impresa. O forse siamo degli epicurei del martini, sicuramente non siamo aristotelici, altrimenti ci soffermeremmo a discutere dei rapporti e delle proporzioni tra gin e vermut.

Palazzo Gritti

Palazzo Gritti

 

La prima tappa è al Gritti. In realtà avevamo battezzato il pomeriggio con uno Spritz al Select alle 16:00, ma la nostra tradizione a Venezia sono i martini. All’ora più consona per un aperitivo, ci ritroviamo al Gritti ed è la prima volta. Sono le 17:53 quando nella visuale della pupilla stanca entra la mano del cameriere a posare sul tavolino un martini perfettamente ghiacciato. E’ il segnale del risveglio. Hemingway è la prima immagine che ti assale, pensi alle volte che dev’essere stato qui. La suite in cui soggiornava porta il suo nome. Il Gritti Palace Hotel, infatti, è stata la casa veneziana per lo scrittore. Un luogo che ha assistito all’ultimo amore extra-coniugale, traslitterato in Al di là dal fiume e tra gli alberi, sempre citato in occasioni beverecce per i martini bevuti dai protagonisti. Insomma, il benvenuto di Venice Cocktail Week ci rianima così, regalandoci un po’ di quell’universo hemingwayano-martiniano autentico che sappiamo apprezzare e decifrare.

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Il martini della Taverna la Fenice

Alle 19:30 siamo già su un altro palcoscenico, alla Taverna la Fenice, storico luogo collegato da un passaggio segreto con il teatro La Fenice, utilizzato in passato nella pausa tra i tempi degli spettacoli, per dare ristoro con un piatto o un bicchiere. Il tempo di raffreddare le coppe è quello che abbiamo per ascoltare le storie che riguardano questa antica taverna. Ce le espone Gennaro Florio, maestro di ospitalità ormai perduta. Il fascino di quei racconti ci distoglie, ancora una volta, dal Covid, alleggerendoci i pensieri. E i martini, quando arrivano, rimandano le preoccupazioni. Torneremo il giorno dopo, per fare l’esperienza di food. Per vivere quelle modalità di servizio di ‘una volta’. E anche quello, forse, è un modo per non pensare al presente, che continua a mandarci segnali non rassicuranti. 

Intanto ci spostiamo per la serata all’Aman. Sono le 20:30 quando entriamo nell’hotel che per magnificenza (possiede un Tiepolo) e stile ricorda le scene della festa di Eyes Wide Shut. Mancano le maschere o forse no, forse quelle le indossiamo comunque. E non sono le FFP2. E’ il primo vero incontro con un po’ di gente della industry. Finora ci siamo mossi in autonomia, siamo rimasti tra di noi. A partire da quel momento, invece, ogni incrocio di sguardi è il là per un saluto. E come lo fai? Stretta di mano? Abbraccio? Baci e abbracci? Il timore c’è, l’incertezza pure. Si oscilla sul da farsi. Si finge di non sapere. Nel mentre ci mascheriamo di un velo di stoltezza e di speranza, il Patrickone nazionale dispensa drink e battute in stile Kong, che già questa è una notizia. Vedere Pistolesi all’Aman è come vedere Mattarella fare il discorso di fine anno al Pascià di Riccione. Il contrasto tra stili intriga e ci ritroviamo al centro, come gli abbonati in prima fila, al tavolo di fronte al bancone. “Martini per tutti?”, chiede in modo lapalissiano Patrick, supportato dal buon Antonio Ferrara, elegante e disponibile barmanager di casa che più avanti ci regalerà la svolta della serata. Intanto i martini lapalissiani arrivano, a pioggia. Tutto è troppo qui all’Aman. Troppa la sua grandezza, troppi gli ospiti, troppa la paura, troppi i martini. Fuggiamo nel cuore della notte, come in un film di spie, a bordo di una piccola barca messa a disposizione da Antonio. Tra i passeggeri c’è Paola Mencarelli, vestita come una nobil donna veneziana ai tempi del Doge, Mauro Majub, che ha da poco pubblicato un interessante libro sulla storia dell’Americano, ben documentato e Andrea Di Lorenzo, fotografo ufficiale della week.

Patrick Pistolesi e Antonio Ferrara

Patrick Pistolesi e Antonio Ferrara

Mentre il motore si scalda e la barca prende il largo nel canale, sappiamo di dirigerci verso l’ultima tappa, all’Experimental Hotel, ma la vera esperienza veneziana la stiamo per compiere proprio durante la navigazione, grazie a una bottiglia che ci siamo portati a bordo…(continua).

 

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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