Sull’orlo del baratro, Sylvester Stallone vendette il cane per 25 dollari, di fronte a uno spaccio
di alcolici. Lo ricomprò per 15 mila quando scese dal ring come Rocky.
C’era un volantino che si distribuiva in quegli anni, a metà dei ’70, che era tutto un programma: Welcome to Fear City (benvenuti nella città della paura). Dove la paura era in realtà, quella di perdere il lavoro, per i pesanti tagli in svariati settori. E la paura generava cattiveria. “State lontani dalle strade
dopo le 18”, intimava un avviso della polizia.
New York era così, imbrigliata in una ragnatela di problemi sociali. Il nodo, come spesso accade in questi casi, era economico. Dal secondo dopo guerra aveva perso un milione di posti di lavoro. Gang violente e criminali dominavano la scena dei quartieri, coi muri imbrattati di graffiti. L’East Village era popolare – non nel senso della fama – la crisi lo aveva svuotato delle botteghe artigiane, trasformandolo nel ritrovo preferito degli artisti, che a New York hanno sempre avuto il fiuto per individuare aree morte in cui vivere o sopravvivere liberamente. Per quello erano tenuti d’occhio in silenzio dai grandi gruppi immobiliari che a un certo punto intervenivano, sbaraccando e investivano, trasformando un mucchio di case di attori, pittori, fotografi, musicisti e cantanti, nel nuovo affare. Risorgeva così, New York, pezzo dopo pezzo, grazie anche alla capacità di trasformare una tela grezza in un dipinto prezioso. Un luogo ha
resistito a quelle trasformazioni: il 55 Bar. Nato con il proibizionismo, ancora oggi è una tana dall’anima jazz/blues, che ospita i migliori musicisti del genere.
Tornando ai lontani 70s/80s e a quello spirito indomito di rinascita e riscossa, anche sociale, c’è un attore semi professionista, che gira un film con quattro soldi, senza nomi importanti, in meno di un mese. La parte nemmeno volevano dargliela. Però insisteva, il film lo sentiva autobiografico, ci teneva. E aveva bisogno di soldi. Mesi addietro, disperato, aveva venduto il suo cane, per un pugno di dollari. Il suo personaggio si chiamava Rocky e sarebbe diventato il pugile più famoso del cinema. Rocky Balboa. Il cognome da italiano come l’omonimo bar di San Francisco, che alcuni anni dopo dava vita al Sex On the Beach. Non solo New York, ma in
generale la moda del bere miscelato di quegli anni aveva una prevalenza per la dolcezza. White Russian, Midori Sour, Godfather, Rusty Nail, sono alcuni dei drink più richiesti. La vodka russa imperava, in clima da guerra fredda.
Altre mescolanze stavano per accadere, di qua e di là del mare. Mentre da questa parte dell’Atlantico nasceva la Milano da bere che si aperitivizzava con il Negroni sbagliato, attestando per il palato italiano una prevalenza di gusti bittered style, in America Tom Cruise usciva nelle sale con “Coctkail”, un film che appena arrivato in Italia scatenava gli istinti di baristi apprendisti nel lanciare bottiglie e attrezzatura per aria, ma con stile, con flair. E anche i nostri confini venivano violati da improbabili bicchieri coloratissimi, ricchi di guarnizioni, a volte infuocati. Alexander, B52, Long Island e poi l’esotico Jungle Bug, il Mai Tai (ma con granatina) il
sempre verde Mojito, i pestati (in tutti i sensi), la fanno da padroni. Dalla lista manca forse il più iconico, sicuramente il più femminile, ma apprezzato anche da un pubblico maschile, il Cosmopolitan. Ripensandoci oggi, dopo le battaglie per le minoranze e il me too, il ‘Cosmo’ avrebbe potuto godere di nuova linfa, trasformandosi in una icona per nuove battaglie, in maniera più urgente di quanto abbia potuto verificarsi con il telefilm di Sex and the City. Cavalcò con fierezza i suoi anni, sintetizzando le diverse anime urbane: era abbastanza macho per gradazione alcolica, gay-friendly per colore, femminile per gusto. Erano altri tempi. Chissà cosa direbbe oggi “Adriana!” sentendosi chiamare…