Il vero inganno di Ada Coleman

Donna e bartender in un mondo al maschile, ha difeso la sua posizione per 23 anni, creando un cocktail che è il suo miglior biglietto da visita con cui ha sconfitto la morale comune: un inganno magico dal nome inequivocabile, Hanky Panky

Fare la barista nei primi due decenni del ‘900 era una scelta controcorrente. Per l’etica comune, si trattava di un mestiere sconveniente sia dal punto di vista fisico che morale. Eppure Ada Coleman tentò la strada, ottenendo i suoi successi, in un inizio secolo maschilista che nonostante i suoi limiti, seppe apprezzare quella donna. Ada fu un tocco di grazia dietro al bancone, con cui vinse i pregiudizi di un periodo che era ancora al riparo dai disastri bellici che lo travolsero più avanti.

Iniziò coi primi rudimenti, come tutti, preparando, pare, un “Manhattan”, vicino per struttura alla sua celebre invenzione. Il suo “Hanky Panky”, infatti, con il gin (al posto del whiskey) e il vermut e una punta di fernet è, rispetto al “Manhattan”, più pungente, con un retrogusto amaro. Dolce quanto basta per farsi apprezzare, amaro quel tanto che serve per farti riflettere sui problemi della vita avara, che non ti

Ada Coleman

Ada Coleman

restituisce in parti uguali quanto tu prima le hai dato. Alla Coleman specie ad inizio carriera dovette sembrare così. In quanto donna dovette faticare il doppio. L’”Hanky Panky” è una metafora della condizione femminile e della capacità delle donne di mettersi al pari con gli uomini. Uomini che bevevano “Manhattan”, adesso potevano trovare un degno sostituto, il suo “Hanky Panky”, un cocktail ideato da una donna. A 28 anni era la bartender del Savoy di Londra. Vi rimase fino a 51, arrivando al ruolo di barmanager. Per tutti era diventata “Coley” e tutti volevano Coley, si affidavano alle sue capacità di creare miscele liquide nuove, pensate al momento. Ne erano affascinati uomini del calibro di Mark Twain, Charlie Chaplin, donne come Marlene Dietrich. Fu un cliente, attore teatrale, che bevendo la sua ultima creatura, gli diede anche il nome. Lo raccontò lei stessa in una intervista: “Il compianto Charles Hawtrey era uno dei migliori giudici di cocktail che abbia mai conosciuto. Con lui ho passato ore a sperimentare miscele finché non riuscivo a realizzare un nuovo drink. Una sera gli proposi di provare una mia nuova creazione. La bevve e alla fine esclamò: ‘Per Giove, questo è un Hanky Panky’”. La traduzione dell’espressione si può indicare come ‘inganno’, ‘stupore’. Come quelli che si potrebbero provare pensando che in quegli anni, solo negli Stati Uniti le bartender sono 147, contro i 55 mila uomini. Ciò avvalora la forza del successo di quell’”Hanky Panky”. che il

American Bar Savoy

American Bar Savoy – Il museo

successore della Coleman, un altro grande della storia del bar, Harry Craddock, inserirà nel suo libro, The Savoy Cocktail Book, attribuendoglielo. Fu l’unica ricetta che prese in considerazione, lasciandone a casa altre. Siamo pur sempre in un secolo maschilista e allo stesso Craddock dovette pesare quella citazione. Come pesava il fatto di avere avuto per un certo periodo una donna come la Coleman nel ruolo di head bartendrer. Ahimè, certi costumi non possono cambiare radicalmente dall’oggi al domani. Con l’arrivo di Craddock e la sua ‘scalata’, Ada Coleman fu lentamente retrocessa, finendo di lavorare nel negozio di fiori (da dove era presumibilmente partita).

Alla fine della storia, leggendo tra le righe la vicenda di Ada, capiamo che il vero e unico “Hanky Panky”, l’inganno, la sorpresa, fu lei stessa, per la forza di resistere, battersi e farsi strada in un mondo di squali bene istruiti.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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