Lunga vita al Bar Basso

Ci sono bar veri, concreti, fuori da certe logiche di marketing moderno, che vanno avanti nonostante la vecchiaia, anzi, dimostrandosi macchine i cui ingranaggi ben oliati funzionano ancora oggi, nonostante tutto

 

Il Negroni "Sbagliato"

Il Negroni Sbagliato®

Su Stocchetto, il suo Negroni Sbagliato® e lo storico Bar Basso troppo si è scritto. Tanto che nulla di nuovo potremmo aggiungere. Quello che segue, invece, è un resoconto di un breve e veloce aperitivo che dimostra come il Bar Basso (e con esso quella tipologia di bar italiani, classici) rifletta all’esterno l’immagine di quello che è. Non è artificiale. Non c’è marketing. Ha la storia dalla sua parte, ma non la usa come spot per sé stesso. Te la fa vivere al suo interno. Sicché quello che bevi al Basso, lo puoi vivere solo al suo interno.

La scena è questa. Vociare misto, allegro, conversazioni di lavoro, riflessioni sull’amica perduta e in sottofondo l’autentico tappeto musicale di un bar che lavora, lavora con la sua solita clientela. “Oggi non ha chiamato?” dice il cameriere anziano a una coppia di habitué. Non è una vera domanda, più che altro una constatazione amichevole. Perché qui funziona così. Salti un giorno e ti presenti senza preavviso, come invece hai sempre fatto e te lo fanno notare, col sorriso e la contentezza di averti di nuovo ‘a casa’. Non ci vieni per moda, ci vieni perché lo fai da sempre. Il Basso ha la logica di una volta, quando, scelto un luogo, lo frequentavi punto. È così che facevano le dinastie, le famiglie importanti. E i bar erano importanti di conseguenza. Questa logica si è rotta da tempo. 

Raccontava Antonio da Cortina che ai tempi del “pentapartito” (per chi è nato almeno dall’86 consigliamo Google), quando era il barman del Posta, doveva separare i rappresentanti di quelle fazioni politiche, facendoli accomodare in angoli opposti. Come in Parlamento. Erano tempi in cui il bar era la riflessione e la prosecuzione della vita reale. Solo con meno forma e più sostanza. 

Uno Sba'

Lo Sba!

“Uno sba!”, urla il bartender. Lo sbagliato classico, coppa tipo gelato, molto larga, capiente. In alternativa ti dicono se lo vuoi “non classico”. Il cocktail Sbagliato “non classico” è servito in un bicchiere alto. Alto è un punto chiave. Per spiegartelo bene te lo mimano con le mani che man mano che si allontanano l’una dall’altra tu pensi: alto quanto un grattacielo. Allora desisti, meglio il classico, andiamo sul sicuro. Almeno per il primo giro. Poi vedi l’altro. In effetti è alto, con un gran chunk. E capisci: è la versione più evoluta e moderna che strizza l’occhio alla Mixology. Bisognerà provare anche questo, allora.

Intanto escono comande, “un Bloody Mary“, “con gin o vodka?”, “con gin” e poi “un Gimlet”. Alla faccia della mixology, verrebbe da dire per certi versi.

La differenza è che qui il cliente sembra sempre chiedere il gimlet o il Bloody con consapevolezza. Lo conosce. Lo ha già preso. Lo rivuole. Non si aspetta twist. Anzi forse guai a chiederlo. Lo Sbagliato è una eccezione, ma ci sta.

Arriva il nuovo “Sba”. Come è? Sfizioso. Il chunk a vista piace, come il bicchiere alto due metri, riempito (per fortuna) a metà, per l’altezza del parallelepido di ghiaccio.

Migliore? No. Peggiore? Nemmeno. Ti sfizia, ti sembra originale e ti riconcilia con quel modo di miscelare di oggi, che, se non rientri tra le fila di quei signori del Gimlet  di cui sopra, ti darà piacere. Contro? È più caldo, ma perché devi aspettare che il ghiaccio faccia il suo lavoro. E pesa. Il bicchiere già da solo è spesso mezzo cm. Ogni sorso è un sollevamento pesi. Una rassicurazione contro il torpore alcolico. Se sei un po’ ciucco si vede, per la difficoltà ad afferrarlo e sostenerlo. E soprattutto sembra l’autostrada del sole. Un viaggio che non ha fine. Bevi, ma è sempre lì. Lo devi saper gestire e questo è segno di grande civiltà.

A conti fatti, se hai meno tempo, il primo è più ‘civile’, ti fai un secondo giro senza attentare alla tua e alla altrui vita. Sono scelte, comunque, lecite entrambe. Se si è in cerca di una mediazione tra passato e presente, la scelta c’è e questo è quel che più conta al Bar Basso. Un locale non sospeso tra tradizione e innovazione, espressione fin troppo abusata negli ultimi tempi. E’ un bar tradizionale, che osserva quel che accade nel presente per accontentare tutti. Fine della storia. 

Il Bar Basso

Il Bar Basso

Un capitolo a parte meritano le olive verdi, grandi, succose, come appunto vuole una certa tradizione di bar italiani, dove non è abitudine sorprendere il cliente con gli effetti speciali. Qui contano di più gli affetti, semmai. E le olive, che non possono essere dozzinali, insapore. Sanno di qualcosa che quando le finisci ne vuoi ancora e ti invogliano a bere e il bere ti invoglia a prendere altre olive, ad libitum. Olive che non richiedono 5 minuti di spiegazione canonica al cameriere quando oggi porta un vassoietto con del cibo misterioso, appagante alla vista. Capito, no?

Qui dentro ti sembra di stare in una fotografia del tempo, nella Milano degli anni 80, che produce, beve e si diverte. Dove il bar era punto di incontro innanzitutto e, bicchiere dopo bicchiere, per alcuni – artisti, designer, imprenditori –  anche casa. 

Piccole confidenze di chi il Basso lo frequenta: le ricette dei drink non sempre si somigliano. Suggestioni di chi, giovane, è avvezzo alle once nel jigger e non capisce il collo libero, forse. E allora? Se anche fosse? C’è una leggera e sana imperfezione che ricorda alcuni bar alla Hemingway. Oggi siamo giustamente anche più esigenti e anche troppo tecnici. Al Basso c’è gente che lavora chi da un decennio, chi da 25 anni, qualcuno anche da mezzo secolo e ben oltre la pensione. Si parla tanto di attitude, di cura del particolare, di perfect serve. Tutti termini di cui il moderno mixologist e il giornalismo che segue il tender-bar cita e ricicla. E poi c’è il Bar Basso e quella tipologia di servizio lì. Lunga vita allo “Sba”. E pure allo sbagliare tout court. Piccole imperfezioni che producono unicità.

Photo Credits copertina: https://www.wallpaper.com/design/we-toast-the-enduring-health-of-milan-institution-bar-basso

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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