Trovare le alternative – Steven Spielberg e William Boothby

La carriera di un bartender non è certo rose e fiori. Anche i grandi nomi sono passati da una gavetta spesso faticosa. Chissà quanti si saranno arresi prima e di questi non sapremo mai nulla. Un consiglio utile potrebbe essere questo: non puoi controllare tutto, ma puoi superarlo. Steven Spielberg, per esempio, fu respinto due volte dalla School of Cinema Arts. Non ritentò però la stessa strada. Superò il bivio. Aggirò l’ostacolo. A volte basta non andare a sbattere la testa più volte sullo stesso punto. Alcuni bartender sono forse troppo presuntuosi o semplicemente non si accorgono dell’errore. Ritenendo di essere bravi a miscelare con tecniche e strumenti avanzati, o ritenendo quella la strada da percorrere, non capiscono, invece, che non riusciranno mai ad eccellere e che forse sarebbe il caso di cambiare

Un giovane Steven Spielberg

Un giovane Steven Spielberg

strategia. Qualcuno, al contrario, ha cambiato e mantenuto gloria e onori, passando dal flair alla mixologia più pura. L’eccezione non fa la regola. Una regola, invece, se proprio volessimo individuarne una, sarebbe quella di valutare in tutta onestà le proprie capacità e utilizzarle come base per la propria carriera. La storia, come sempre, insegna. In passato, William Boothby, ottenne successo come bartender, ma basandosi di più sul suo spirito imprenditoriale. Certo, non era a corto di ego – sarebbe utile averlo – e quando scrisse il suo libro, “Cocktail Boothby ‘s American Bartender”, andava pubblicizzandolo con una frase che suonava pressappoco così: cari bartender non siete nessuno se non lo leggete. Sembrerà innocente, ma il messaggio, chiaro, arrivava a destinazione.

Parliamo di un uomo che curava molto l’immagine e si autodefiniva “Presiding Deity”, poi, cambiando luogo di lavoro, al Piedmont Springs Hotel passò a “professore”. Sapeva vendere, era consapevole che quella fosse la sua skill migliore. Da giovane si era messo alla prova in tal senso, viaggiando per il West con i medicine shows. Vendeva i famosi bitter-elisir di lunga vita e toccasana per qualsiasi malattia. Insomma, fu uno che la carriera se la costruì, pezzo dopo pezzo, dal nulla, usando le sue forze. Così, mentre i colleghi come Harry Johnson ancora pubblicavano nuove edizioni del proprio libro per arrotondare il lunario da barista, lui che già un libro lo aveva pubblicato, nel frattempo nel 1894 aveva ottenuto un seggio nello stato della California, poi aveva acquisito un ristorante ed era divenuto membro del prestigioso Olympic Club di San Francisco. Nella sua nuova vita di politico, non dimenticò certo il vecchio mondo dei saloon che aveva praticato. Anzi, quando pubblicò la nuova

William Boothby

William Boothby

edizione del libro, scrisse una dedica: “Ai commercianti di liquori di San Francisco che mi hanno assistito all’unanimità nelle mie elezioni a maggioranza senza precedenti”. Mica stupido, l’Onorevole Boothby. Quando tornò alla vecchia carriera di bartender, continuò a concentrarsi sulla gente, sulla figura degli ospiti, che venivano prima di tutto. Aveva la vodka – siamo nel 1914 – ma non per dimostrare la sua bravura di miscelatore all’avanguardia, quanto piuttosto per accontentare il cliente di qualsiasi tipo e per essere pronto a qualsiasi richiesta. A fermarlo fu il proibizionismo. Fu arrestato perché colto in flagranza di reato. Strano che un personaggio della sua risma non abbia pensato di emigrare altrove per continuare la carriera. Fu l’unica volta in cui non tentò di aggirare l’ostacolo. Alla sua morte, nel 1930, un centinaio di colleghi provenienti da tutta l’America presero parte al funerale.

Gaetano Massimo Macrì

Martiniano. Bartender/giornalista. Insegnante di quello che – seppur in molti sembrano esserselo dimenticato – va sotto la voce di “American Bar”. Tradotto significa: esigente bevitore al bancone e miscelatore ignorante, perché, come scriveva un ‘collega’ degli anni ’30 del secolo scorso (Elvezio Grassi in “1000 misture”) l’essere un buon barman è “sapere quanto poco noi sappiamo”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Per questo motivo vado in giro per locali, alla ricerca del mio perfetto martini cocktail, nonché del mio bartender di fiducia. Un po’ Ernest Hemingway, un po’ David Embury, un giorno scriverò anche io una ‘bartender’s guide’ o qualcosa del genere. Infine, ma assolutamente non da ultimo per importanza, ecco alcune disposizioni per chi fosse interessato a farmi da bere. Colui che mi preparerà un buon Americano, avrà la mia simpatia. Colui che saprà costruirmi un Boulevardier degno di nota, otterrà la mia riconoscenza. Se, poi, non solo non disdegnerà un Old Pal, ma sarà in grado di equilibrarmelo nella coppetta, godrà di tutta la mia più profonda stima. Il martini, tuttavia, è un’altra faccenda.

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